Per Gianni Vaggi, direttore del Master in Cooperazione e sviluppo dell'Università di Pavia, se i Paesi Ue non trovano un accordo peseranno sempre meno negli equilibri del continente, dove oggi investono moltissimo le potenze asiatiche. Quanto alla polemica di Di Maio e Salvini sulla moneta coloniale, il tema è "marginale": "Quelle africane non sono economie diversificate. Anche se potessero svalutare, non ne avrebbero grandi vantaggi”
“La moneta è un simbolo del colonialismo, ma non ha effetti dirompenti sul piano economico”. Al contrario, a pesare davvero sulle economie dei Paesi africani è l’accaparramento delle risorse strategiche, di cui Italia e Francia sono responsabili in ugual misura. E’ il giudizio di Gianni Vaggi, direttore del Master in Cooperazione e sviluppo dell’Università di Pavia, dopo l’affaire nato con gli attacchi di Di Maio e Salvini al franco Cfa. Parigi sembra aver chiuso con le parole della ministra per gli Affari europei, Nathalie Loiseau: “Non vogliamo giocare al concorso di chi è più stupido”. In una battuta sono state così rigettate al mittente le ipotesi di ritorsioni su dossier come Alitalia o Fincantieri dopo le uscite dei due vicepremier.
Salvini, ospite di Mattino Cinque il 22 gennaio, aveva provato a rincarare la dose: “Le cause delle migrazioni sono diverse. In Africa c’è gente che sottrae ricchezza quei popoli, la Francia è evidentemente tra questi. In Libia la Francia non ha nessun interesse a stabilizzare la situazione, perché ha interessi petroliferi opposti a quelli italiani”. E proprio l’incapacità delle potenze europee di unirsi è quello che preoccupa Vaggi. È quello infatti il più grande impedimento a rendere efficace la cooperazione allo sviluppo. “Ci vorrebbe maggiore concertazione tra i Paesi europei, altrimenti abbiamo finito di contare, vista anche la concorrenza di Cina, Giappone e Corea del Sud”. Sono le potenze asiatiche, infatti, quelle che al momento hanno maggiore capacità d’investimento.
Le false promesse dell’Europa unita – Nel 2000 a Cotonou, la capitale del Benin, l’Europa ha sottoscritto il quadro giuridico che regola le relazioni con 79 Paesi di Africa, Caraibi e Pacifico. L’impegno di facilitare le relazioni commerciali con dei partenariati economici ad hoc, aumentare la cooperazione allo sviluppo e migliorare il dialogo politico. L’idea di fondo era sostenere attraverso questi tre pilastri le economie dei Paesi in via di sviluppo. Questo avrebbe dovuto fare da volano economico e contribuire a combattere la povertà. “I partenariati economici dovevano essere chiusi dopo quattro-cinque anni e invece le negoziazioni sono durate anche dodici anni perché da un lato i Paesi europei non trovavano un accordo e dall’altro c’erano amicizie con Paesi africani da mantenere. Manca ancora oggi una vera concertazione”, spiega Vaggi. Gli effetti di Cotonou sono stati, con un eufemismo, limitati. L’accordo è in scadenza nel 2020 e l’Unione europea dal settembre 2018 sta rinegoziando i suoi termini. Il problema dell’incapacità di unire le voci all’interno dell’Ue oggi è ancor più evidente di 19 anni fa.
L’impossibile competizione sul mercato – “Il problema delle economie africane è che producono materie prime: petrolio, arachidi, cacao. Non producono automobili o beni industriali. Non sono economie diversificate. Anche se avessero una moneta che si può svalutare, non ne avrebbero grandi vantaggi”, sostiene Vaggi. Senza politiche industriali, l’economia locale non si sviluppa molto. E anche se ci fossero, la competizione che c’è oggi è altissima: “Sarebbe difficile in ogni caso per un’industria africana competere con quelle asiatiche”, aggiunge Vaggi. Anche sulle materie prime, per altro, gli scambi commerciali sono più difficili degli anni 2000: “Un mese fa l’Unione europea ha tolto una clausola che prevedeva per i produttori di riso asiatici l’accesso al mercto europeo senza dazi. A fare pressione sono stati gli agricoltori italiani che sentivano la loro competizione come sleale. È anche comprensibile, ma questo dà la misura di quanto sia complicato decidere in che modo dobbiamo collaborare. Però non sono pessimista, credo che le cose stiano evolvendo”.
Il Franco Cfa: un non-problema economico – Nel quadro dell’economia africana che non si sviluppa “il tema del Franco Cfa è collegato, ma molto marginale”, prosegue Vaggi. La moneta comune in 14 Paesi dell’Africa occidentale e centrale ha sì un tasso di cambio bloccato e non si può svalutare, ma non obbliga nessuno a stare alle sue condizioni. Il Mali è uscito (nel 1962) e poi rientrato (nel 1984) all’interno della comunità Uemoa, di cui fanno parte i Paesi che usano il Franco Cfa nell’Africa occidentale. La Guinea Conakry, Paese ricchissimo di bauxite, uranio, petrolio, oro e diamanti, pur avendo lasciato la moneta di stampo coloniale nel 1960 non è riuscita a sviluppare la sua economia, vittima come è stata di 13 anni di dittatura e instabilità politica. Oggi è uno dei Paesi dove i cinesi investono di più.
Dall’altro lato, è vero però che c’è un piano politico del Franco Cfa che avvantaggia la Francia e contribuisce a quello che Vaggi definisce “un atteggiamento neocoloniale”. La metà delle riserve della moneta africana, infatti, sono depositate nella Banca centrale francese. Il tasso di cambio bloccato con l’euro è un’altra decisione della Francia. “La moneta è un simbolo del colonialismo, ma non ha effetti dirompenti sul piano economico”, sostiene Vaggi.
Il caso Niger: il neocolonialismo energetico – Circostanze in cui l’atteggiamento neocoloniale ha effetti ben più gravi è invece l’accaparramento delle risorse strategiche dei Paesi africani. “I vecchi Paesi colonizzatori che cercano ancora di approfittare del loro status”, dice il professore dell’Università di Pavia. L’Italia lo fa con i pozzi petroliferi in Libia, la Francia lo fa soprattutto con l’uranio in Niger. Orano, la vecchia Areva, multinazionale francese controllata per oltre il 50% dallo Stato che si occupa di energia, ricava la maggior parte dell’uranio che usa nelle sue centrali nucleari dalle miniere nigerine. Oxfam Francia nel 2017 ha analizzato il modo in cui Areva ha gestito la negoziazione delle licenze. Rispetto a quanto previsto dai contratti del 2014, tre anni dopo la società è riuscita a ottenere uno sconto sulle royalties di 4,5 milioni di euro. Se Areva ancora oggi mantiene i contratti è proprio per il suo legame storico con il Paese.
Il nesso (che non c’è) con l’immigrazione – È un’illusione però pensare che eliminare l’atteggiamento neocoloniale della Francia e dell’Europa possa avere un impatto sui flussi migratori. “Non ci dimentichiamo che le categorie di migranti in Africa sono tre – ricorda Vaggi -: i poveri che si spostano dalla campagna alla città, quelli che stanno un po’ meglio e si spostano in altri Paesi del continente e quelli che possono pagare i trafficanti circa 4mila dollari per mandare i propri figli in Europa. Noi vediamo solo l’ultima parte”. Questi flussi, anche se il continente fosse ricco, continuerebbero ad esistere: “Vanno tolti dalle mani dei trafficanti, che sono delle vere bande armate. Se però non hai né forza diplomatica, né una forte presenza militare continuerai a pagare l’uno o l’altro gruppo armato e si continuerà così. Le critiche all’Europa sono corrette, perché se non ci si mette d’accordo, almeno tra le prime quattro potenze che mettono insieme il 75% del Pil, non ci sarà mai una struttura adatta ad affrontare questo tema”.