In Italia, quella del cinema politico o d'impegno civile è stata una stagione incendiaria. Battezzata nel 1962 da Francesco Rosi con Salvatore Giuliano terminò bruscamente nel 1976, dopo anni intensissimi. Per una strana profezia o per un'orrida coincidenza, a decretarne la fine fu proprio l'autore che più di tutti aveva contribuito a renderla grande
Occorre fare i conti con i miti moderni, con le incoerenze, con la corruzione, con gli esempi splendidi di eroismi inutili, con i sussulti della morale: occorre sapere e potere rappresentare tutto ciò.
In Italia, quella del cinema politico o d’impegno civile è stata una stagione incendiaria. Battezzata nel 1962 da Francesco Rosi con Salvatore Giuliano terminò bruscamente nel 1976, dopo anni intensissimi. Per una strana profezia o per un’orrida coincidenza, a decretarne la fine fu proprio l’autore che più di tutti aveva contribuito a renderla grande. Il 29 gennaio 1929 nasceva a Roma Elio Petri, padre rinnegato di un cinema che non c’è più.
Se esiste un dio, è comunista – Figlio unico, cresciuto in via dei Giubbonari da una famiglia di artigiani, Elio trascorre un’infanzia che lui stesso avrà modo di definire infelice. Nutrito dall’educazione cattolica e repressiva impartitagli dalla nonna, appena adolescente abbraccia in maniera autentica e profonda gli ideali della sinistra, aderendo alla federazione giovanile del Partito comunista. Religione e politica, quindi, mantecano in un sistema di valori complesso, persino conflittuale. Il suo primo approccio con il cinema, tuttavia, non è alla macchina da presa ma a quella da scrivere. Si esercita, infatti, nella critica, collaborando prima con L’Unità poi con Città aperta, e facendo da sceneggiatore (tra gli altri) a Giuseppe De Santis, “il mio unico maestro”. Questo, almeno, sino all’incontro con Marcello Mastroianni.
Non ancora feticcio di Federico Fellini, l’attore ciociaro diventa infatti subito amico di Petri e per lui indossa i panni dell’antiquario Alfredo Martelli, protagonista del lungometraggio d’esordio del cineasta romano, L’assassino (1961). Pur ancora acerba, la pellicola conserva qualche piccolo presagio: la passione per il genere giallo, l’attenzione per l’indagine di fatti e persone, ma soprattutto un neorealismo in cui la realtà non è rappresentata più in maniera diretta, ma grottesca e paradossale. Un’idea di cinema, questa, che maturerà nel corso degli anni ’60. Arricchita poi dalle divagazioni fantascientifiche de La decima vittima (1965, con un platinatissimo Mastroianni) e dall’incontro con Leonardo Sciascia e con Gian Maria Volonté (A ciascuno il suo, 1967).