“Abbiamo una bozza che deve essere arricchita per diventare un accordo” con i Taliban. L’annuncio al New York Times dell’inviato americano per il processo di pace in Afghanistan, Zalmay Khalilzad, apre all’ipotesi di un ritiro della coalizione occidentale che dal 2001 è impegnata in Afghanistan, tanto che anche il ministro della Difesa italiano, Elisabetta Trenta, ha dato disposizioni al Comando operativo di vertice interforze (Coi) di pensare alle operazioni di ritorno dei circa 800 militari italiani che svolgono attività di addestramento alle forze di sicurezza afghane. Ma se la notizia ha portato entusiasmo nelle diplomazie occidentali, la realtà dice che, a oggi, le due missioni “resolute support” (della coalizione) e “freedom sentinel” (americana) lascerebbero un Paese in cui i Taliban controllano il 35% del territorio ed esercitano la loro influenza su un altro 10%, livelli mai raggiunti dall’inizio del conflitto, nel 2001. Un Paese in cui i gruppi estremisti si stanno diffondendo attirando l’attenzione dei combattenti più giovani, con la delegazione talebana di Doha che non rappresenta la totalità delle parti coinvolte nella lotta per il territorio. “Un ritiro entro 12 o 18 mesi come è stato ipotizzato – commenta a Ilfattoquotidiano.it Claudio Bertolotti, analista esperto di Afghanistan per Ispi – non sarebbe che l’ufficializzazione di una sconfitta di cui avevamo certezza già nel 2012”.
Che qualcosa sui tavoli di Doha si stesse muovendo lo si era capito già dal 25 gennaio, quando l’organizzazione guidata da Hibatullah Akhundzada ha nominato a capo dell’ufficio qatariota mullah Abdul Ghani Baradar. Questo cambio al vertice aveva lo scopo di lanciare un messaggio preciso. Baradar è cofondatore del gruppo insieme al mullah Omar e da sempre ricopre incarichi di primo livello tra gli “studenti” coranic. Esponente di una fazione più moderata, è lui che alla fine del 2001, durante l’assedio di Baghran, avrebbe caricato il mullah Omar ferito su una motocicletta portandolo in salvo oltre il confine pakistano. È sempre lui che nel 2010 si mise a capo di una fazione favorevole ai negoziati con Kabul. Una scelta che non piacque al Pakistan che, ancora intenzionato a esercitare la propria influenza sugli islamisti afghani, lo incarcerò mandando su tutte le furie l’allora presidente, Hamid Karzai, che vide così sfumare l’opportunità di avviare un tavolo di pace. Dal carcere, Baradar è uscito solo a ottobre scorso, pochi mesi prima di essere messo alla guida della delegazione di Doha, dove i Taliban svolgono i loro incontri diplomatici. Una coincidenza che dimostra il cambio di strategia di Islamabad.
Secondo le prime rivelazioni sulla bozza di accordo, gli stati Uniti si sarebbero impegnati a un rapido ritiro (si ipotizzano 18 mesi) di tutte le truppe occidentali dal Paese, circa 18.500 unità, con i Taliban che in cambio garantirebbero che i territori sotto il loro controllo non rappresentino zone sicure per gruppi terroristici come lo Stato Islamico o al-Qaeda e, aspetto ancora da chiarire, con i guerriglieri che dovrebbero rispettare un cessate il fuoco e dialogare direttamente con il governo di Kabul per inserirsi nel processo democratico, ipotesi sempre respinta dalle bandiere bianche, tanto che Khalilzad, oltre a rappresentare gli Stati Uniti a Doha, ha fatto anche da tramite e mediatore tra il gruppo e il governo di Ashraf Ghani. A confermarlo è stato anche un funzionario Taliban che al Nyt ha dichiarato che queste due ultime richieste non rappresentano condizioni necessarie alla firma di un accordo con gli Usa.
Il vero valore della stretta di mano dopo sei giorni di colloqui tra Khalilzad e i leader Taliban, si avrà solo quando si capirà chi, tra le numerose anime del gruppo che secondo le ultime stime della Difesa americana conterebbe su 60mila miliziani, era rappresentato a Doha. “Per Taliban – spiega Bertolotti – si intende un insieme di 20-30 piccoli gruppi, generalmente distinti per motivi territoriali, che operano sotto la bandiera bianca degli studenti coranici, ma che in realtà si sono sviluppati e si gestiscono autonomamente, in alcuni casi addirittura in competizione tra loro per lo sfruttamento del territorio e dei vari traffici, uno su tutti quello di oppio”.
Se tutti questi piccoli gruppi accettassero in maniera compatta gli accordi di Doha, gli Stati Uniti potrebbero dire di aver bonificato, almeno parzialmente, quel 45% di territorio che oggi, con diversi gradi di penetrazione nella società, è sotto la gestione del gruppo. “Il problema – continua l’analista – è che a Doha è rappresentata soprattutto la vecchia leadership che fa capo alla Shura di Quetta, composta dagli anziani mujaheddin che si sono arricchiti dopo la cacciata dell’Unione Sovietica e che oggi cercano di spartirsi il Paese”. Ma tra i Taliban sono emersi e si sono ingranditi nuovi gruppi di giovani combattenti, mossi da una forte ideologia rispetto ai vecchi signori della guerra e con l’aspirazione di trarre profitti economici dai traffici illegali e dal controllo del territorio che un accordo del genere renderebbe impossibili. “Il rischio è che questi combattenti escano dalle organizzazioni di cui fanno parte per andare tra le braccia di gruppi più radicali e che sposano la causa del jihad globale, come al-Qaeda e Isis”, dice Bertolotti.
Un rischio già sperimentato da una delle fazioni più radicali che operano sotto la bandiera dei Taliban: la Rete Haqqani. Quando la formazione nata per volere del deceduto Jalaluddin Haqqani ha provato ad assumere posizioni meno radicali di quelle per le quali si è resa famosa nel panorama del conflitto afghano, ha rischiato un esodo dei propri combattenti verso lo Stato islamico del Khorasan, la “provincia” di Isis in Asia centrale, tanto da vedersi costretta a tornare sulle proprie posizioni. “Il mullah Akhundzada è un pragmatico – continua Bertolotti – Non è un combattente, ma un ideologo, quindi ha posizioni più moderate rispetto al mullah Omar che, però, aveva il carisma e le capacità di tenere unite le varie anime Taliban. Per questo Akhundzada ha dovuto accettare i leader della rete Haqqani come braccio destro alla guida del gruppo, ruolo che con Omar non avevano mai ricoperto, per tenere ben saldi i legami con le frange più estremiste. Abbiamo detto che la vecchia leadership è fautrice di questo accordo. Poi c’è la fazione che fa capo a Gulbuddin Hekmatyar che oggi ha un partito, Ḥezb-i Islāmī, rappresentato alla Camera bassa e che non farà fatica ad accettare, dopo la grazia e il perdono concessi con un ritorno a Kabul in pompa magna, nonostante sia un criminale di guerra. L’incognita, tra i gruppi principali, è proprio la Rete Haqqani: o decidono di rimanere sulle loro posizioni e, quindi, sfidare la leadership Taliban, oppure si accontenteranno di perdere la propria influenza tra i combattenti in cambio di una ricchissima buonuscita”.
Altro elemento che complica il processo di pacificazione nel Paese è la sempre più massiccia presenza di jihadisti stranieri tra le fila dei Taliban, tanto che anche al-Qaeda nel subcontinente indiano (Aqis) ha iniziato a collaborare nuovamente con loro fornendo combattenti per sferrare attacchi contro le forze di sicurezza. “L’Afghanistan sta vivendo l’effetto boomerang del jihadismo di ritorno – spiega l’analista – Molti mujaheddin che si erano fatti le ossa cacciando i sovietici negli anni Ottanta erano poi emigrati sposando altre cause, come la guerra in Bosnia o, più recentemente, il conflitto siro-iracheno. Oggi, l’Afghanistan rappresenta nuovamente una meta per aspiranti jihadisti, così nel Paese si sono riversati da fuori numerosi miliziani afghani, ma anche uzbeki, uiguri, ceceni, arabi e anche europei che non possono tornare nel vecchio continente. Sono qui per ‘liberare’ l’Afghanistan sotto la bandiera di Isis, al-Qaeda o del Movimento islamico dell’Uzbekistan (Imu)”. È anche a causa loro se negli ultimi anni, a fronte di un calo dei singoli attacchi suicidi, si sono registrati un incremento delle vittime, un aumento del potenziale offensivo degli attentatori e del numero di persone impiegate per una singola operazione, passando dall’utilizzo di un singolo shahid a dei commando armati formati da più combattenti.
Tenendo conto di tutte queste variabili, il presidente Ghani ha invitato tutti alla prudenza: “Vogliamo la pace rapidamente, la vogliamo presto, ma con prudenza. La prudenza è importante, non ripetiamo gli errori del passato”. “Dovremo vedere chi aderirà all’accordo di pace – conclude l’analista -, chi invece passerà tra le fila di movimenti più radicali e continuerà a combattere nel Paese. Vedremo anche se i Taliban saranno disposti ad accettare un cessate il fuoco e il dialogo diretto con Kabul. Quello che sappiamo, almeno dal 2012, è che abbiamo perso la guerra”.