Politica

Salvini e Di Maio, quella volta che i vicepremier andarono in guerra con Francia e Olanda

Alla fine doveva succedere: lo sbocco bellico dell’esperimento di governo giallo-verde. Ovviamente con una netta divisione di compiti, funzionale alle rispettive campagne elettorali già in corso da quasi un anno. Ma dietro l’intera vicenda si intuiva l’accorta regia dell’afasico consigliere pentastellato – er penombra Davide Casaleggio – che ricevette l’ispirazione dall’aver scovato nella cineteca di casa un film finito nel dimenticatoio dell’altrettanto dimenticato comico inglese Peter Sellers: Il ruggito del topo, anno 1959 con regia di Jack Arnold, in cui si racconta la paradossale vicenda dell’ipotetico Ducato di Gran Fenwick, che basa la sua intera economia sull’essere produttore di un famoso vino entrato in crisi di vendita per colpa dell’imitazione lanciata da un industriale vinicolo californiano. Per superare l’impasse si decide di dichiarare guerra agli Usa con lo scopo di perderla e – così – ottenere sovvenzioni dal vincitore (purtroppo per il Ducato capita che la pattuglia dei suoi soldati in calzamaglia, sbarcati negli States, s’impossessi per caso della terribile bomba Q costringendo Washington ad arrendersi).

Una trama che entusiasmò immediatamente anche il comandante Salvini, felice di poter aggiungere una nuova divisa militare al suo guardaroba.

Ora bisognava individuare i bersagli per non creare sovrapposizioni confusionarie. Giggino decise immediatamente: l’odiata Francia, con quel suo presidente Macron vestito da fighetto più di lui. Qualche difficoltà nella scelta del nemico da cui farsi sconfiggere per vincere le elezioni di maggio la incontrò la Lega. Anche perché i più contrari ad accettare le suddivisioni di immigrati sbarcati in Italia erano proprio i compagnucci nelle gite eno-gastronomiche salviniane: i ghiottoni sovranisti-suprematisti bruciabaracche del Patto di Visegrad.

Fortuna volle che l’ultima rissa mediterranea del Viminale si era scatenata con una nave battente bandiera olandese, terra odiata a priori dal ministro per quei suoi formaggi avvolti da involucri di cera rossa; colore che scatena nel suddetto ministro reazioni tipo toro nell’arena. Ormai il dado era tratto per i soci del nostro governo: Parigi valeva bene una messa ma non quanto il sangue di San Gennaro, i Paesi Bassi sono terra al 70% di biechi atei con una quota al 5,8% di islamici a far ulteriormente infuriare i leghisti neo-conversi (e dunque fanatizzati) al cattolicesimo più bigotto, abbandonando i riti di Eridano e del dio Po. Il premier Conte, in chiave mediatoria e per suggellare la collaborazione tra i due schieramenti in formazione, si propose ai condottieri Matteo e Giggino come promotore della benedizione alle rispettive insegne in una cerimonia a Petralcina celebrata in spirito da padre Pio.

Ma il punto su cui iniziò subito a emergere la vena innovativa della duplice compagine guerresca fu nell’allestimento degli arsenali bellici. Ora si capì l’astuzia del Di Maio che aveva destinato il benefit di cittadinanza non ai veri poveri bensì ai disoccupati cronici: crearsi l’armata Fancazzist per spezzare le reni alla Francia. Le cui dotazioni rispecchiavano rigorosamente la napoletanità dell’impostazione: tranci di pizza Margherita alla Terra dei Fuochi, mortali per l’alto contenuto di diossina. Come al solito divergente ma altrettanto dialettale, Matteo dette la preferenza alle armi chimiche, realizzate con produzioni a chilometro zero: contenitori di plastica riempiti ad alito di cassoeula bresciana e fumi di cattivo vino tagliato al metanolo, tipico delle genuine osterie delle valli.

Così attrezzati Giggino e Matteo si predisponevano a infliggere una dura lezione a quei presuntuosi con la puzza al naso di olandesi e francesi. Ormai a rischio di morire. Dal ridere.

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