Meno di un anno fa gli elettori mandavano un messaggio forte al sistema politico: “Così non va: vogliamo un cambiamento radicale”. È la democrazia. Chi vede una contraddizione fra i risultati del 4 marzo 2018 e la valanga di voti presi da Matteo Renzi pochi anni prima, non ha capito: è lo stesso messaggio. Che però, grazie al trial and error, si è affinato. C’è stata una presa d’atto sul fatto che la vision del Pd non funziona, almeno in questa fase storica. Non è più questione di persone, di leader: Mario Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni. Gli elettori chiedono un cambio sistemico in almeno tre settori: l’economia, i migranti, e il sistema politico. Gli elettori segnalano chiaramente anche la direzione del cambiamento desiderato. Non tutto va bene. Ad esempio: “meno democrazia” non va bene (come ha imparato Renzi a sue spese).
Nell’ambito economico, la gente chiede lavoro (vera risposta alla crisi sociale), che si crea con la crescita (il modo migliore per abbattere il debito pubblico). Il vincolo alla crescita, dal 2008, è la domanda aggregata troppo debole. Si tratta di capire come stimolarla, essendo nell’euro quasi tutto vietato/impossibile (per esempio, non si può fare quel che sta facendo il Giappone, o quello che ha fatto Obama, eccetera).
La nuova maggioranza ha tentato un cambio del paradigma della politica economica, ma in modo ingenuo: perciò ha fallito. Se, come dicono, l’euro e le sue regole sono “una trappola, una gabbia”, dovevano sapere che non si esce da una gabbia lanciandosi contro le sbarre: l’unico risultato è farsi male (difatti il conto degli spread è salato). A parte questo, l’Italia è stata riaccompagnata cortesemente nel vecchio paradigma di Giulio Tremonti (ultima versione), Monti, Letta, Renzi, Gentiloni. Di conseguenza, non ci sarà una ripresa sostenuta della crescita e dell’occupazione, l’attesa svolta. Il reddito di cittadinanza è solo una pezza su una crisi sociale, nel Sud, destinata a durare.
Perché questo fallimento? Per disinnescare “la trappola” senza che esploda ci vorrebbero degli artificieri. Ma il M5s vi ha rinunciato in partenza. La promessa di coinvolgere nel governo del Paese eccellenze della società civile è stata subito accantonata (salvo un paio di ministri, subito messi all’angolo). Ma già l’impostazione originaria di Beppe Grillo – il “referendum sull’euro”: una battuta poi consolidatasi in dogma – scaricava sugli elettori non una scelta di valori, bensì una valutazione eminentemente tecnica su un particolare assetto monetario, sui meccanismi macroeconomici necessari a rilanciare l’economia, sulle capacità negoziali del Paese (dentro l’Eurozona, o in caso di uscita concordata): un non sequitur. Il punto non è se uscire (restare) nell’euro, ma come uscire (restare). La democrazia rappresentativa ha il suo perché. Altra cosa sarebbe un referendum sull’Ue.
Molti grillini chiedevano di “tenere duro” con l’Ue, e portare in ogni caso il deficit dall’1,9% (2018) al 2,4% (2019). C’è qui un’idea ingenua di politica espansiva: come se bastasse fare deficit spending in qualsiasi modo e condizione. La rinuncia a sfidare l’Europa, e a politiche più ambiziose, è grave ma saggia. Non si maneggia una bomba senza competenze di alto livello, alla guida – anche politica – di un processo così complesso e delicato e senza unità di intenti. Ma le dichiarazioni di Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio – “non abbiamo la bacchetta magica” – sono confessioni di impotenza: conferme inopinate del there is no alternative (Tina) caro al Pd (e all’Ue). Di qui il calo dei consensi dei 5s.
Matteo Salvini invece si è posizionato in maniera strategicamente astuta sull’economia: più “anti-euro” del M5s, per lasciare a loro la colpa del fallimento, ma non abbastanza da assumersi la responsabilità di una politica alternativa. Ma soprattutto la Lega ha, al contrario dei 5s, un cambio di paradigma da offrire in un altro settore sensibile: lo stop (vero, presunto) agli immigrati. Le liti con l’Europa qui non riguardano la moneta francese dell’Africa Occidentale, ma l’equa ripartizione dei migranti in Europa: principio rilevante, che anche gli europeisti possono capire.
Restano le istituzioni. Gli elettori chiedono:
1. più democrazia, anche “diretta” (ma con buon senso: chi stravolge la Costituzione muore);
2. partecipazione (anche nei partiti);
3. meno abusi dei politici e di chi gli gira intorno (conflitti di interesse, appropriazione legalizzata di fondi pubblici, stipendi eccessivi, clientelismo, ecc.).
Qui il M5s in teoria potrebbe pareggiare i conti con la Lega. Ma sorprendentemente – al di là del freno esercitato dalla Lega e dei tempi tecnici per le riforme costituzionali – il M5s non è stato finora in grado di presentare un piano generale per la riduzione degli eccessi del potere, tale da accreditarsi come portatore di un cambiamento sistemico (ancorché filo-costituzionale). Le battaglie particolari, per quanto importanti – come sui vitalizi dei parlamentari – non sono una riqualificazione generale della democrazia italiana, né toccano le cause profonde degli abusi. Nel lungo termine, quel che conta di più è l’occupazione. Per uscire dall’angolo, Di Maio e Dibba farebbero bene a rinchiudersi tre giorni a Frattocchie a studiare una svolta (macro)economica.