Il governo del cambiamento tira avanti, avvolto da nugoli di polemiche. Queste, specie se sollevate da sinistra, riguardano puntualmente grandi temi – migrazioni, grandi opere, immunità parlamentare a Matteo Salvini… – che erodono il consenso ai Cinquestelle, ma portano acqua al mulino della Lega. Si spiegano anche così, banalmente, i sondaggi che danno ormai quest’ultima circa otto punti sopra il M5s. Verrebbe da dire, ci fosse una volta che i fari dell’informazione inquadrano problemi più terra-terra, che toccano da vicino la vita delle persone. Come quello del concorso in Polizia su cui cerco qui di attirare l’attenzione.
Il consenso che ancora avvolge il governo deriva soprattutto dal fatto che si presenta ancora come del cambiamento. In realtà, come mostrerà la parte monografica della rivista Ragion pratica su populismo e legislazione in uscita in primavera, la prassi parlamentare è in totale continuità con quella dei governi precedenti. Invece di fare leggi, coinvolgendo gli eletti del popolo, si continua a governare per decreto, ricorrendo a tecnici d’area o a funzionari parlamentari. Il popolo lo capisce solo quando il presidente della Repubblica denuncia l’andazzo, come ha fatto con gli emendamenti a decreto milleproroghe.
Dello stesso tipo è l’emendamento 11.17 al Decreto semplificazioni, a firma del senatore leghista Luigi Augussori, che autorizza la Polizia di Stato ad attingere alle graduatorie di un concorso del 2017 per assumere 1851 nuovi agenti. Meglio, un concorso di meno. Ma suscitare la protesta dei 14mila candidati è che l’emendamento cambia le regole del gioco, fissate dal bando, mentre si sta giocando la partita. A essere chiamati, cioè, non sarebbero più i primi in graduatoria, ma solo quelli che, oltre ai requisiti previsti dal bando, ne presentino due in più: un diploma di scuola media superiore e non aver compiuto 26 anni. Tutta la giustificazione che il senatore leghista ha saputo addurre è stata: non facciamo che applicare il Decreto Legislativo 95/2017 del precedente governo Gentiloni, dunque non prendetevela con noi.
I miei ex-studenti che mi hanno segnalato il caso (io ne sapevo nulla), mi fanno notare quanto segue.
1. Il diploma loro ce l’hanno, e spesso pure la laurea, ma hanno compiuto 26 anni e verrebbero esclusi, solo per questo, a favore di candidati meno meritevoli di loro.
2. Il decreto del governo Gentiloni, perfettamente illeggibile anch’esso, è venuto anch’esso dopo il bando, sicché non poteva cambiarne le regole.
3. E più importante, l’emendamento discrimina fra candidati sulla base del criterio demeritocratico dell’età, violando il principio costituzionale di uguaglianza. Aggiungo io: se proprio vogliamo premiare il demerito, perché non preferire i più anziani, che hanno più urgenza di trovare lavoro?
Il Senato ha approvato l’emendamento per il rotto della cuffia e ora il tutto passa alla Camera, che potrebbe ancora cambiare tutto: è l’unico vantaggio del bicamerialismo perfetto, che Renzi voleva abolire. Comunque sia, martedì prossimo molti dei potenziali esclusi saranno in piazza a Montecitorio, per chiedere che la Camera ci ripensi, evitando loro la solita trafila di ricorsi, su su sino alla Corte costituzionale. Io invece mi limito a segnalare che, quando ci sono da fare piccole-grandi ingiustizie come questa, il Governo del Cambiamento le difende giustificandosi con le piccole-grandi ingiustizie di governi precedenti: rivelandosi, pure in questo, Governo della Continuità.
Ps. Vi state appassionando al dibattito su popolo ed élite acceso dal solito, tragico Baricco? Io no, ma credo di avere una risposta molto semplice al problema. Abbiamo esattamente le élite che ci meritiamo.