L’Italia ha speso per le opere pubbliche come e più degli altri Paesi europei (Francia e Germania) nel periodo 2000-2010 (Banca d’Italia) ma non se ne vedono grandi risultati. Politica instabile, legge Severino, carenze di analisi, burocrazia e codice degli appalti, hanno reso la situazione a dir poco problematica. Basti pensare ai costi finali di alcune opere, che triplicano rispetto alle previsioni e ad analisi dell’utilità (di trasporto in particolare) sovradimensionate per giustificare opere e appetiti. Questo sistema inefficiente c’era nei decenni passati e c’è adesso: di nuovo, solo per una parte di questo Governo, c’è la necessità di fare delle valutazioni più approfondite sui conti, sui meccanismi di finanziamento pubblico (perché i project financing sono falliti solo in Italia?) deresponsabilizzanti e tutti a fondo perduto. Eppure, per misurare se un’opera serve o meno si può verificare anche dal grado di coinvolgimento del mercato.

Dieci anni fa l’ex Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che non è un ambientalista e neppure un radical chic, disse che “la riduzione della spesa per le opere pubbliche impone una valutazione dei costi e dei benefici di progetti alternativi”. L’affidamento dei lavori pubblici in Italia richiederebbe un’analisi dei suoi meccanismi che spieghi gli errori fin qui fatti, anche a causa di modelli di programmazione che sembravano più liste della spesa che progetti di sviluppo delle reti e dei punti di rete, come porti, aeroporti e centri intermodali. Con i vecchi meccanismi, che hanno rallentato la spesa e spolpato le casse pubbliche, viene difficile pensare che ci sarà una crescita sana. Raffaele Cantone presidente dell’Anac aveva sottolineato: “In Italia c’è un problema di infrastrutturazione e una delle ragioni per cui le infrastrutture non riescono ad andare avanti è proprio nella presenza della corruzione soprattutto al Meridione. Sono soprattutto i fatti corruttivi a rendere lunghissimo e complicato l’avvio dei lavori pubblici”.

Quando gli imprenditori chiedono il rilancio degli investimenti, purtroppo, pensano ancora a quelle vecchie logiche dove ce n’è per tutti e dove la lievitazione dei costi diventa la prassi prevalente. In pratica lo sblocco delle opere, chiesto a viva voce anche da Lega e Pd, era già presente prima della formazione di questo Governo. Con un problema in più: gli investimenti oggi non devono creare solo spesa ma anche ricchezza, che deriva dallo sfruttamento efficace di quanto si costruisce. Con una crescita prevista inferiore alla spesa, qualcuno dovrebbe suggerire ai 5 stelle – a torto ritenuti i colpevoli del blocco – quale tipo di spesa aumenta la ricchezza e quali sono i moltiplicatori di sviluppo, magari con qualche attenzione alla sostenibilità.

Un esempio su tutti da portare sui libri di scuola: il più grande investimento aeronautico del secolo scorso, Malpensa 2000. Costato 1,5 miliardi di euro, lo scalo della brughiera è dotato di due piste e due terminal, ma 20 anni dalla sua apertura trasporta solo 24,7 milioni di passeggeri, meno della metà della sua capacità operativa. Stansted, con una sola pista e un solo terminal, muove 24 milioni di passeggeri. Le previsioni dell’Università di Cranfield erano di 33 milioni di passeggeri al 2003 (in realtà sono stati 17,6 nello stesso anno) mentre già nel 2005 si dovevano trasportare 1 milione di tonnellate merci (12 anni dopo, nel 2017, erano fermi alla metà). I posti di lavoro avrebbero dovuto raggiungere i 140mila addetti nel 2005, ma ora si toccano a malapena 60mila unità e la qualità dell’occupazione è sempre più scadente, per salario e normative precarie. Per non parlare di cosa costa continuare una politica di investimenti a pioggia su 34 scali nazionali. Risultato: maggior numero di aeroporti con il traffico medio per scalo più basso del vecchio continente.

Dati Onlit, Osservatorio nazionale liberalizzazioni infrastrutture e trasporti)

Stessa cosa si può dire per i porti: il traffico container della sola Rotterdam raccoglie la somma di quello di tutti i porti italiani. Tra le opere “ferme per colpa dei 5 stelle” ci sarebbe la Pedemontana lombarda. Se le altre opere del lungo elenco sono ferme per i motivi detti sopra, quest’ultima spicca per un’altra causa, non attribuibile al Governo. La Pedemontana è ferma perché il mercato finanziario ha già bocciato il finanziamento dell’opera in più occasioni. Cosa potrà mai fare Danilo Toninelli per convincere le banche a prestare soldi per un’opera che non sarà mai in grado di restituirli? Una soluzione c’è: pagare il danaro a tassi d’interesse del 20% e scaricare i costi sui contribuenti e sui futuri pedaggi per gli automobilisti. Ma è possibile andare avanti così?

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