Economia

Pil, Tria: “Si restringe il divario di crescita rispetto all’Eurozona”. Ma il gap è stabile intorno all’1% dal 2016

Lo scorso anno l'Italia stando alle stime preliminari è cresciuta dello 0,8%, l'Eurozona dell'1,8%. L'anno prima i tassi erano stati +1,5% per la Penisola e +2,4%, in media, per i Paesi della moneta unica. Un differenziale che l'istituto di ricerca Ref collega non tanto all'industria quanto ai consumi interni che languono a causa dei bassi salari

“È un dato che era atteso ed è determinato dal ciclo economico europeo. In termini di tassi di crescita annui il 2018 si chiude con un +1%, che restringe il divario di crescita dell’Italia rispetto alla media dell’eurozona (+1,2%)”. Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha commentato così i dati sul pil diffusi giovedì. Ma i numeri resi pubblici dall‘Istat e dall’Eurostat mostrano in realtà che il differenziale tra la Penisola e gli altri Paesi che hanno adottato la moneta unica è vicino all’1% dal 2016 e la situazione non è migliorata nel 2018.

La stima di Eurostat è infatti che lo scorso anno la zona euro sia cresciuta dell’1,8% (dato destagionalizzato), mentre secondo i dati preliminari dell’Istat il pil italiano corretto per gli effetti di calendario (cioè “depurato” dalle giornate lavorative in più rispetto al 2017) è aumentato dello 0,8%. Se a marzo queste prime stime venissero confermate, la distanza sarebbe dunque lievemente superiore a quella registrata nel 2017, quando l’Eurozona è cresciuta del 2,4% e l’Italia dell’1,5 per cento. Il gap si allarga all’1,1% se si sceglie di prendere i dati sulla crescita del quarto trimestre 2018 rispetto allo stesso periodo del 2017: +0,1% per l’Italia, +1,2% per l’Eurozona.

Nel 2015 e 2016 il divario di crescita era stato un po’ più basso, con l’Italia rispettivamente a +0,8 e +0,9% e l’Eurozona a +1,6 e +1,7%.

L’istituto di ricerca Ref ha dedicato un’analisi approfondita all’andamento del differenziale tra pil reale dell’Italia e quello dell’Eurozona (il pil reale equivale a quello nominale depurato dall’inflazione) nella sua ultima nota congiunturale, intitolata “Economia in stagnazione“. Il focus arriva alla conclusione che il gap non dipende tanto dagli scarsi investimenti quanto da consumi interni che languono a causa dei bassi salari che riducono la capacità di spesa delle famiglie. “Il differenziale di crescita fra l’economia italiana e gli altri paesi dell’area euro si posiziona da diversi anni intorno al punto percentuale, con oscillazioni che riflettono le caratteristiche di ciascuna fase ciclica”, premettono gli analisti della società indipendente che tra il resto supporta l’Ufficio Parlamentare di Bilancio. Nel 2012, in piena recessione, il gap ha superato il 2%, per poi restringersi e assestarsi stabilmente intorno all’1 per cento. Cumulandosi nel tempo, spiega il rapporto, questo gap fa sì che il nostro Paese stia “retrocedendo progressivamente nelle graduatorie in termini di livello del reddito pro-capite, distanziandoci dalle maggiori economie avanzate”.

La parte più interessante è però quella che indaga sulle cause del divario, confrontando le componenti della domanda aggregata e la composizione settoriale della crescita di Italia, Francia e Germania. Il risultato è che dal 2015 l’Italia “ha azzerato il differenziale nella crescita delle esportazioni rispetto agli altri due grandi paesi dell’eurozona” e l’industria, anche grazie agli incentivi fiscali degli anni scorsi e al miglioramento delle condizioni creditizie,”ha ridimensionato in misura significativa il divario di sviluppo rispetto ai partner”. E si è ridotto anche il differenziale di crescita negli investimenti.

Apparentemente quindi l’economia italiana si è “riequilibrata dal punto di vista della posizione competitiva”. La più bassa crescita, stando a questa analisi, dipende soprattutto dell’andamento dei servizi. Secondo Ref questo è in parte un “esito diretto delle politiche relative al controllo della spesa della Pa, in parte agli effetti della minore crescita dei consumi delle famiglie, a sua volta riconducibile all’evoluzione relativa sfavorevole del potere d’acquisto“.