Se il buongiorno di Sanremo si vede dai testi delle canzoni in gara c’è poco da stare allegri. Parolieri contemporanei in saldo, rimasticazioni di poetiche e stili, apnee rappettare in rima baciata, e il solito ermetismo nobile del dire a nuora perché suocera intenda. Intanto la classica chiamata alle armi del cuore. La parola “amore” esiste. E appare con assiduità in undici delle 24 canzoni che ambiscono alla vittoria. A cui vanno aggiunti un’altra mezza dozzina di “cuore”.
Uno schieramento politicamente nostalgico e trasversale che taglia a metà il neomelodico di Anna Tatangelo (“Quante bugie ci siamo detti, amore”), le arie(tte) internazionali de Il Volo (“Amore abbracciami, voglio proteggerti”) e scorre giù giù fino alle nuove leve calcistiche classi ’68 degli ExOtago (“Quando l’amore non è giovane, è solo una canzone”), del cucciolo Irama che la prende larga e più ingenuamente pepata (“Fare l’amore è così facile, credo”) e del pretenzioso Einar che nel ritornello del suo brano spinge il pedale di una fantasia che non sboccia ripetendo per tre volte: “Riscriverò l’amore con parole nuove”.
Altro refrain rintracciabile, letteralmente istantaneo, solubile e da mescolare in cronaca è quello dei salviniani “porti chiusi”. Novelli Ribelli, all’epoca erano i pugni ad essere chiusi, gli Zen Circus non si dannano l’anima creativa in nessuna elaborazione in versi (“le porte aperte e i porti chiusi, e sorrisi agli sconosciuti/che ci guardano attoniti mentre ci baciamo”), mentre i Negrita perdono un paio di minuti in più e sfornano un riferimento twittarello da brividi: “Dei fantasmi sulle barche e di barche senza un porto/come vuole un comandante a cui conviene il gioco sporco”. È il pegno da pagare per stare al passo con la contemporaneità dell’hip hop e della trap. Ghemon, infatti, cerca di recuperare i fasti del “guerriero di carta igienica” di Umberto Tozzi con un “Frasi squisite, quelle tue/ che ora sanno di cibo per gatti”. Mentre Federica Carta e Shade tengono il punto con un fraseggio più sciolto e sofisticato sulle angosce dell’oggi, in chiave Recalcati: “Noi piano piano ci roviniamo/dammi il mio panico quotidiano”.
Solo che la trap è poeticamente un altro mondo. Magari un po’ superficiale e querulo, ma l’efficacia dei versi in rima in chiave d’attualità è sempre un sentire orecchiabilissimo. Mahmood la fa un po’ vintage con un uno-due Medio Oriente/Hollywood che lascia il segno (“Beve champagne sotto Ramadam/Alla tv danno Jackie Chan”), mentre Achille Lauro rimescola l’immaginario internazionale di arti-culture-musiche-cinema- tv-sport con il brano Rolls Royce che accontenta, in chiave nazionalpopolare, dalle nonne agli adolescenti: “No non è un drink è Paul Gascoigne/No non è amore è un sexy shop/Un sexy shop sì sì è un Van Gogh” o “Sdraiato a terra come i Doors/Vestito bene via del Corso/Perdo la testa come Kevin”.
Anche se poi chi si è affermato con un proprio stile, con quattro accordi e sette paroline riconoscibili torna sempre sul luogo del delitto. Prendete Arisa, ad esempio, che con Mi sento bene sembra recuperare il testo e le sonorità di Sincerità: “Credere all’eternità è difficile/Basta non pensarci più e vivere/e chiedersi che senso ha?”. C’è poco di rilevante da aggiungere se non che le dediche, “in memoria di”, si allargano dal particolare all’universale come un ventaglio di pretese: Anna Tatangelo sembra aver scritto un testo per parlare al suo Gigi (“Se si ha il coraggio di ricominciare/ma non è facile quando si perde la complicità”), Enrico Nigiotti a suo nonno defunto (“Mi mancano i tuoi fischi mentre stai a pisciare/mi manca la Livorno che sai raccontare”), Motta addirittura all’Italia intera con un ritornello ecumenico alla Vecchioni/Fossati: “Dov’è l’Italia amore mio? Mi sono perso anch’io”. Per tutti vale però la lezione di Ultimo, nomen omen, che con I tuoi particolari si arrende all’infinito, getta le armi degli ultimi Mogol in crisi d’identità: “Se solamente Dio inventasse delle nuove parole potrei dirti che/siamo soltanto bagagli”. Amen.