A parole la chiedono tutti, nei fatti nessuno la vuole. L’Italia continua a non avere una legge nazionale sulle lobby. Perfino in Parlamento, il tempio stesso delle leggi, si fatica a istituire una disciplina seria ed efficace, lasciando ampi margini ai cosiddetti “portatori di interesse”. Alla Camera da due anni c’è il Regolamento con relativo registro che ad ogni occasione di verifica si rivela un flop. In Senato non c’è nulla di nulla e – come vedremo – neppure l’intenzione di dotarsi di una qualche forma di autoregolamentazione, fosse anche di facciata. Con l’M5S al governo, forte anche di una ampia componente parlamentare, sembrava la legislatura della svolta. Nei primi sei mesi, il cielo dei lobbisti in Parlamento continua a splendere e nessuno sembra preoccupato di intervenire contro le pressioni sugli eletti e sul processo legislativo.
Dal 23 marzo sono state depositate sei proposte di legge, quattro al Senato e due Camera. Nessuna di iniziativa governativa. Sono assegnate alle rispettive commissioni Affari Costituzionali ma nessuna ha cominciato l’esame. I proponenti sono perlopiù del Pd, i cui deputati e senatori (Madia, Verducci, Valente, Misiani) hanno ripresentato vecchie proposte rimaste appese alla scorsa legislatura, che ne aveva partorite addirittura 18 senza che una arrivasse in aula. Anche Riccardo Nencini del Misto ha riproposto la sua al Senato. M5S ha elaborato una proposta sulle lobby, a firma del deputato Massimo Baroni, ma è limitata al settore della salute, volta cioè a regolare i rapporti tra organizzazioni sanitarie e produttori di dispositivi medici e farmaci. Sul fronte dei “palazzi” niente. Un dato sorprendente.
Alla Camera l’incompiuta
In mancanza di una legge nazionale, resta la via dell’autoregolamentazione inaugurata alla Camera per volontà dell’allora presidente Laura Boldrini a marzo 2017, quando Montecitorio adottò per la prima volta un regolamento e Registro delle lobby. Le resistenze dei deputati furono tali da condizionare il testo: senza sanzioni e obblighi, il regolamento è rimasto un libro delle buone intenzioni, come ha dimostrato la disamina di OpenPolis e la prova “sul campo” di Fq Millennium, coi finti-lobbisti che spacciandosi per emissari di una lobby inesistente hanno strappato promesse ai deputati fuori del “recinto” dei portatori di interesse, bypassando l’abc del codice.
Correttivi in vista, non se ne vedono. Al momento si contano sei proposte di modifica del regolamento, nessuna relativa al registro delle lobby. Se ne contano invece due volte a dare un contributo essenziale cambiando la denominazione delle commissioni parlamentari: la XII che da Affari Sociali diventa “Salute e politiche sociali” e la VII che aggiunge alla dicitura Cultura, scienza e istruzione anche ricerca, editoria e sport. Fermare i lobbisti non è una priorità. Eppure un tagliando servirebbe eccome.
In una recente analisi Open Polis racconta che le schede anagrafiche e le relazioni relazioni annuali delle 200 realtà iscritte sfiorano la presa in giro. L’art. 4 del regolamento prevede che la struttura accreditata “dia conto dei contatti effettivamente posti in essere, degli obiettivi perseguiti e dei soggetti nel cui interesse l’attività è stata svolta, con le eventuali variazioni intervenute, nonché dei dipendenti o collaboratori che hanno partecipato all’attività”. Informazioni che mancano del tutto in alcuni casi, “come Cattaneo&Zanetto o la Comin&Partners che sono due delle società di lobbying più grandi in Italia, non sono rese disponibili le relazioni sull’attività del 2017”. Primarie realtà come Eni, Leonardo, Philip Morris, British american tobacco, Unipol e altre hanno depositato la loro relazione annuale, ma come si vede dal sito della Camera sono così generiche da non fornire alcun contributo conoscitivo in merito alle persone incontrate e alle motivazioni dell’incontro.
Senato, praterie per i lobbisti
Il vero scandalo è però nell’altro ramo del Parlamento, dove neppure si palesa l’intenzione di regolare in qualche modo i “gruppi di pressione”, anche per contrarietà del presidente Maria Alberti Casellati. Se a Montecitorio registro e regolamento sono giusto qualcosa, il “niente” nell’altro ramo parlamentare lo vanifica, perché in un sistema bicamerale le pressioni più meno debite sventate da una parte si concentrano facilmente dall’altra. In altre parole, basta appostarsi davanti alle commissioni del Senato e prima o poi arriveranno i testi sui quali agire. E l’occasione di abbordare, condizionare, influenzare è servita su piatti d’argento.
Ci sono segnali su una volontà, anche minoritaria, di cambiare le cose? Nei primi sei mesi della XVIIIesima legislatura neppure l’ombra, né sul fronte dei questori, né presso l’ufficio di presidenza e neppure per iniziativa di uno soltanto dei 315 eletti alla camera alta. Le proposte di modifica regolamentare trasmesse finora sono soltanto due, una chiede di istituire una “Commissione permanente per il Sud e le isole”, l’altra volta a rendere omogenea la disciplina degli emendamenti tra Camera e Senato. Queste sono priorità, non arginare le pressioni che alterano leggi e democrazia.