La mancanza di acqua potabile aumenta il rischio di contrarre le malattie della povertà. Niente acqua significa anche suolo arido. Suolo arido significa niente raccolti e niente da mangiare. Quindi migrazione. Il teorema di Bob è semplice: se gli si dà l’acqua diminuirebbero anche le immigrazioni
Non ho Bob Dylan fra i miei follower su Instagram e invidio Antonio Gallo, infallibile comunicatore per la Pirelli e sui social che con il Premio Nobel della Letteratura, leggenda vivente del rock, 2300 concerti in giro per il mondo, cantautore e compositore di poesie, chatta come fosse uno di noi. Bob, lo chiamo anche io per nome, vuole che Antonio gli dia una mano a organizzare un grande evento benefico dedicato ai bambini in Africa. Un charity che coinvolga coscienze e portafogli per raccogliere fondi per l’emergenza acqua. Bob va e viene dall’Africa subsahariana. Impossibile non trattenere il fiato davanti alle statistiche di World Vision International. Bere acqua non potabile provoca più morti di qualsiasi forma di violenza, inclusa la guerra. Ancora oggi il 10% della popolazione mondiale ( che equivale a 750 milioni, due volte la popolazione degli Stati Uniti più Canada e un pezzetto del Messico ) non ha accesso all’acqua potabile, considerato uno dei diritti umani fondamentali. Non ha neanche il minimo indispensabile per garantire la propria sussistenza, per avere una vita dignitosa.
Parole al vento, adesso Bob ha detto basta, ci pensa lui, perché “The Times They Are A-Changin’ “( i tempi stanno cambiando) altro suo inno per la difesa dei diritti civili. Fra le papabili location del super evento (forse Naomi Campbell madrina) Castel dell’Ovo di Napoli, l’unico al mondo costruito sull’acqua. Intanto i fan di Bob sono in attesa del documentario di Martin Scorsese, “Rolling Thunder Revue”, dedicato al leggendario tour di Bob Dylan del 1975. In onda dove, quando? Su Netflix, oh yes.
Rimaniamo on the road, su quella che dal Midwest porta ai cartelli messicani. Guida, balla, canta, seduce e si lascia sedurre da ragazze che hanno l’età di sua nipote e, in più, dirige se stesso. Clint Eastwood, 89 anni il prossimo 31 maggio, una sessantina di film, due volte premio Oscar, sei Golden Globe, svariate nomination, è un’altra leggenda vivente. Da icona degli spaghetti western ( prodotti dal grande Dino De Laurentiis) si è poi impegnato molto a far dimenticare lo stereotipo del cow boy un po’ legnoso. Adesso è strepitoso nel film in uscita “Il Corriere” ( The Mule), basato sulla storia vera di Leo Sharp, un veterano della seconda guerra mondiale, un floricultore innamorato dei suoi gigli che sbocciano per un solo giorno e che, rimasto senza un pugno di dollari, diventa il corriere di trafficanti di droga, con carichi sempre più grandi. Dritto come un giunco, ancora bello ma sente poco. In pubblico si toglie l’apparecchio acustico e gli si perdona anche il vezzo di una piccola “tiratina” stendi rughe. Adesso Sergio Leone che lo ha diretto tante volte non oserebbe più dire: “Clint è un attore che ha solo due espressioni: una con il cappello e una senza cappello”.
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