di Luigi Manfra*
La Polonia, l’Ungheria, la Repubblica Ceca e la Slovacchia, Paesi in cui la xenofobia è assai diffusa, hanno molte caratteristiche comuni. Godono di una crescita economica invidiabile, hanno un’elevata occupazione e salari bassi ma crescenti. E purtroppo sono contraddistinti da un fenomeno comune a quasi tutta l’Europa: la denatalità. A questo fenomeno si aggiunge, inoltre, l’elevato numero di lavoratori che da questi Paesi si sono spostati nell’Europa occidentale in cerca di condizioni di vita migliori. Dalla sola Polonia, negli ultimi dieci anni, almeno 2 milioni di lavoratori sono emigrati principalmente verso la Germania e il Regno Unito, mentre in Ungheria 600mila lavoratori hanno abbandonato il Paese in cerca di migliori salari all’interno dell’Ue.
La Polonia, col tasso di fecondità più basso del continente, pari a 1,34 figli per donna in età fertile, e l’Ungheria con un tasso di 1,45, pur essendo gli alfieri della chiusura dei propri confini, hanno un bisogno disperato di manodopera. Senza migranti economici i due Paesi sono in difficoltà e non potrebbero mantenere tassi di crescita dell’economia tra i più alti in Europa. Gli stranieri a cui l’odierna Polonia, ostinatamente anti-rifugiati, apre le porte in nome della loro affinità culturale e delle esigenze del mercato del lavoro interno, sono prevalentemente bielorussi, georgiani, moldavi, russi, e soprattutto ucraini. Ma la mancanza di manodopera, in prospettiva, appare difficilmente colmabile dato l’elevato numero di polacchi, soprattutto giovani, che desidera emigrare nei prossimi anni per migliorare le proprie condizioni economiche.
In Ucraina, dall’inizio della crisi con la Russia circa tre milioni di cittadini sono espatriati, anche se le statistiche al riguardo sono nebulose, e circa un milione hanno trovato un’occupazione in Polonia, supplendo alla mancanza di manodopera locale nell’agricoltura, nelle costruzioni e nei servizi. Ma l’esodo continua perché l’economia polacca, in questi settori in forte sviluppo, ha un crescente bisogno di braccia.
Per i lavoratori polacchi la presenza di manodopera a basso costo ha avuto un effetto depressivo sui salari e, pertanto, i lavoratori stranieri non sono benvisti. Questi ultimi, attratti da condizioni di lavoro migliori, appena possono cercano di trasferirsi in altri Paesi europei, innanzitutto in Germania, dove dal 2020 dovrebbe entrare in vigore una legge che semplifica notevolmente l’ingresso e l’occupazione per gli immigrati europei non comunitari. Sono infatti 1,2 milioni i posti di lavoro che le imprese tedesche non riescono a coprire per carenza di manodopera, nonostante l’integrazione crescente nel mondo del lavoro dei richiedenti asilo siriani accolti in gran numero. L’effetto di questa normativa, secondo alcune stime, comporterà un esodo di mezzo milione di ucraini che abbandoneranno la Polonia per la Germania, attratti da un salario quattro volte più elevato.
Anche in Ungheria, secondo l’istituto statistico locale, la disoccupazione ha raggiunto il livello più basso di sempre, pari al 3,8%, e la tensione sul mercato del lavoro, acuita da un numero insufficiente di ungheresi in età lavorativa, è diventata un problema sempre più grave. I salari, di conseguenza, sono aumentati velocemente negli ultimi anni preoccupando non poco le imprese. Il governo di Viktor Orban, per aumentare l’offerta di lavoro, ha fatto approvare due leggi che stanno causando proteste e manifestazioni in molte città. La prima riguarda l’età pensionabile, che passerà dagli attuali 62 a 65 anni nel 2022. La seconda dispone una nuova normativa sul lavoro straordinario.
Questa legge prevede un aumento del ricorso allo straordinario pari a due ore giornaliere o, in alternativa, l’introduzione della settimana lavorativa di sei giorni. Ma non basta: è prevista anche una dilazione sul pagamento delle ore di straordinario prestate dai lavoratori, che le imprese potranno comodamente pagare entro tre anni. Il governo ungherese, inoltre, ha avviato iniziative per invogliare le minoranze ungheresi presenti nei Paesi limitrofi, e gli ungheresi residenti in Europa occidentale, a ritornare in patria. Infine sono state emanate leggi al fine di richiamare al lavoro i pensionati in cambio di incentivi fiscali.
I Paesi sovranisti dell’Est, dunque, devono affrontare difficoltà crescenti se non vogliono rinunciare allo sviluppo delle loro economie. È infatti contradditorio avere confini blindati a difesa della propria identità nazionale e contemporaneamente aver bisogno della manodopera proveniente dai Paesi poveri. I Paesi dell’Europa occidentale hanno anch’essi bisogno di lavoratori stranieri, e preferiscono quelli provenienti dall’Europa dell’est extracomunitaria, come il caso della Germania insegna. Di conseguenza il serbatoio di manodopera ucraino, serbo o moldavo si svuoterà, e ai Paesi sovranisti non resterà che rassegnarsi ad accettare anche i lavoratori di fede musulmana se vogliono continuare ad avere un’economia florida.
* Responsabile scientifico del Centro studi Unimed, già docente di Politica economica presso l’Università Sapienza di Roma