Articolo ad alto tasso di spoiler, fruirne (non si capisce bene perché) dopo l’uso di on-demand
Prima regola del MasterClub: quando credi che tutto sia prevedibile, gli autori si divertiranno come mattacchioni a fare carta vince carta perde per fregare chi guarda, un po’ come De Gregori quando canta fuori tempo apposta per risultare simpaticissimo al pubblico dei suoi concerti. Fatevi un autoritratto, dicono gli chef nella prima prova. E in qualche caso – non si fanno nomi – non sarebbe proprio un bel vedere. Ma parecchi dei 20 aspiranti chef si scatenano come se fossero a Montparnasse negli anni Venti. Un po’ di ingredienti bianchi da colorare con altri ingredienti ultracolorati come la barbabietola, lo zafferano, la curcuma o l’alga spirulina. Verando (si chiama davvero così) ha per esempio l’ideona di ispirarsi ai colori di Viterbo, che d’altra parte come tutti sanno hanno spinto Kandinskij a memoria imperitura.
I migliori sono tre, da che mondo è MasterChef. E invece no. Sono 4. Anzi 5. Ma sì, facciamo 6. Abbondandis in abbondandum: si arriva a 8, che è già un numero superiore dei telespettatori di C’è Grillo. Ma come? – uno si chiede – MasterChef non era rimasto l’ultimo posto nel mondo in cui valeva ancora il merito, la competenza, lo studio e perfino la grammatica, dove i giovani non venivano messi appaccheggio, nessuno vinceva a sbaffo, dove non poteva esserci mai un pupularsi di espertoni che comandavano tutto? E infatti sì, basta aspettare.
Tra i presunti migliori ci sono parecchi secchioncelli, per esempio Gloria la friulana che vuole inventare daccapo il mondo anche quando deve fare le letterine a burro e formaggio. E infatti fa il quadro più colorato: chef Locatelli – uomo di stile ed evidentemente di lingua lunga – scomoda nientemeno che Damien Hirst, per via dei punti rossi, blu e viola. Bellissimo, di sicuro, ma apparentemente meno buono del suo aspetto esteriore. Vince Salvatore, il capitano di navi, che come vantaggio guadagna il potere di decidere se l’Invention test lo fanno i 7 migliori con lui o i 12 peggiori. E allora il capitano si toglie l’ancora dai pantaloni e salva i deboli. Si segnala già qui gente commossa da tanto culo perché in balconata vanno quelli che sono destinati al macello già al prossimo giro di giostra. L’Horatio Nelson potrebbe seguirli e invece getta l’ancora tra le onde e cucina anche lui, di nuovo, invece di salvarsi.
L’Invention si basa sulle lacrime strappastorie dei 4 giudici, ritratti in foto da piccoli: Cannavacciuolo nell’ultima immagine a dimensione naturale, Barbieri elegantissimo come al solito con un cappottino da Pari d’Inghilterra. Ognuno racconta dei piatti che suscitano un ricordo o la sensazione di una svolta. Non si vuole indagare, qui e ora, a quale svolta è legata la pasta e fagioli di Antonino, scelta da Salvatore per tutti gli inventivi. E con una cosa facile facile facile come la pasta e fagioli cosa potrà mai succedere?
Seconda regola del MasterClub: metà di quelli che vanno a missile nella prima prova, te li ritrovi al Pressure test tutti sudati ad invocare l’avvento del Messia. Che i migliori si trasformano improvvisamente in impediti, ricordando da vicino i partecipanti, eroici, delle corse dei sacchi a Giochi senza Frontiere, quando Malta per i nostri governi non era ancora al primo posto degli Stati canaglia, ma un sasso esotico in cui si parla una triplice lingua. E insomma succede che Loretta, elegante architetta pavese, fino a quel momento sull’onda dell’eccellenza quando Cannavacciuolo le fa notare che nella pasta e fagioli si vedono solo carote, comincia a stizzirsi come se fosse in coda alle Poste: “Eh, ma che occhio da chef”, utilizzando a MasterChef (A MASTERCHEF) una frase così come se fosse un insulto in osteria. Gloria la secchiona friulana lascia i fagioli “croccanti”, Giuseppe il venditore ambulante rovescia il peperoncino di tutta la Locride sulla pasta, Barbieri minaccia schiaffi a raggiera, Guido l’anatrone che sa (quasi) tutto si fa venire una sciatica e inizia una sceneggiata chiedendo perfino di sedere su una poltrona, ad assistere ai giudizi degli chef come un vecchio zio con la pipa. Vince proprio l’anatrone, uno delle decine di milioni di avvocati che a un certo punto della vita – mentre sono lì che scrivono al giudice del lavoro di Teramo, in fatto e in diritto – decidono che devono diventare Ramsay (solo in questa edizione tra studenti, praticanti e simili sono 4). Ma anche se sembra già da tempo maturato il momento, i giudici invece che fare i buttafuori si trasformano nel gommone della Prestigiacomo, pronti ad accogliere tutto il mondo. Non cacciano nessuno.
Vanno tutti alla prova esterna e i migliori, furbetti, si fanno la squadra dei migliori: l’avvocato che schifa i tribunali guida la brigata, il capitano di navi gli fa da sous-chef. La prova è all’aeroporto militare di Pisa (ops, i livornesi perdoneranno la cadutina di gusto) dove c’è da sfamare cento aviatori, ma metteteci un po’ di creatività, suggeriscono i giudici. Guido l’anatrone e Salvatore il capitano per dare dimostrazione di genio e sregolatezza nel menù ci mettono lo spezzatino. Il capo-brigata dell’altra squadra è Anna, la carnevalesca nonnina di 72 anni. L’esterna fa uscire il Locatelli più irascibile, naturalmente sempre intessuto di ultrachic. “Buongiorno e buon appetito”, “buongiorno e buon appetito”. Comunque finisce bene per i migliori, dai: 89 a 11. Le manie di grandezza di MasterChef sono tali che il risultato è segnalato da una specie di fortezza volante fatta alzare sui cieli di Pisa (ai livornesi cena pagata come risarcimento) per virare dal lato in cui è schierata la brigata vincente. Non si vuole immaginare cosa si chiederà di fare agli ospitanti se il programma arriverà un giorno alla Agenzia spaziale.
Terza regola del MasterClub: nel sussidiario di un concorrente ci devono essere la maionese, un uovo in camicia e un’omelette. Com’è che i concorrenti all’ottava edizione non l’hanno capito, non si sa. E’ quasi più ricorrente della cottura del pollo che come noto a MasterChef è meritevole della conclusione della vita terrena di Maria Antonietta. Tutt’e tre le prove sono racchiuse nel pressure test, i 20 minuti più di suspense di tutta la televisione (secondi solo a quando Giancarlo Magalli, presidente della Repubblica del Fq, comincia a fare rissa nella Piazza Grande di Affari Vostri con chiunque gli capiti a tiro).
E, per riprendere la regola numero 2, con la maionese i cosiddetti migliori si muovono come i Cinquestelle quando devono cominciare a spiegare che voteranno no al processo a Salvini. Jerry il cowboy la scambia per una tagliata e ci mette il pepe, qualcun altro ci infila l’aceto, Giovanni il fuoricorso a medicina dal 1988 non ci mette l’olio (vedi che poi il problema non è il numero chiuso). La prova successiva è l’uovo in camicia, proprio nel senso di uno solo a disposizione. Il fuoricorso è un tantino insicuro e gira l’acqua nella pentola per due ore e un quarto: “Giovanni stai ipnotizzando l’acqua” gli fa Locatelli. Salvatore il capitano si becca Bastianich: “Se lo servi in albergo, un uovo così, te lo tirano in faccia”. Per farla breve: l’uovo non riesce a nessuno tranne a Jerry il vaccaro.
Terza prova: omelette. Locatelli comincia con le sue descrizioni evocative e manzoniane: “Superficie liscia e lucida e all’interno bavosa, morbida”. Però i giudici non vogliono un’omelette qualsiasi. Ingrediente principale: un uovo di struzzo. E’ uguale a 23 “uovi di galine”, come dice Joe. Il pensiero, commosso, va per un momento alle centinaia di omelette che solo qualche mese fa sono finite contro le pareti della cucina di Hell’s Kitchen, grazie al lanciatore professionista Carlo Cracco. Ma il pensiero dura il tempo di un’idea, comunque di più della permanenza di Paola a MasterChef. Chi è Paola? Ah boh: non è mai entrata nel racconto finché Locatelli non ha detto che la sua omelette era “immangiabile”.