Il quarto e ultimo governo guidato da Angela Merkel, in coalizione con i socialisti dell’SPD, si è assunto la storica responsabilità di pianificare l’uscita della Germania dall’era del carbone. In una giornata che rimarrà a lungo nella storia tedesca ed europea, sabato scorso una Commissione di 28 esperti ha definito la data ultima di utilizzo del carbone come materia prima per la produzione di energia elettrica. Una risoluzione che ha forti ricadute, ben al di là della lotta al cambiamento climatico e le cui conseguenze sono tutt’altro che relegate al futuro di Berlino. Entro il 2038 tutte le centrali a carbone attive in terra tedesca cesseranno qualsiasi attività. Questo è l’esito politico dopo la conclusione di uno studio finanziato dall’attuale governo tedesco e che è stato portato avanti dalla scorsa estate, aggregando esperti e rappresentanti dell’industria tedesca del carbone, del mondo accademico e diverse associazioni ambientali.
Per capire l’entità della presa di posizione di Berlino, occorre notare che attualmente il carbone, nelle sue diverse forme, produce all’incirca il 34% dell’elettricità necessaria ad alimentare la principale potenza economica e industriale del nostro continente. Soltanto le energie rinnovabili, solare ed eolico in testa, producono un volume maggiore di energia elettrica. Ecco perché la decisione di sabato scorso segna un passo risolutivo della Germania nel percorso verso il raggiungimento degli obiettivi imposti dall’accordo di Parigi del 2015. La politica adottata, nonostante l’inevitabile ricaduta sui costi dell’elettricità per i consumatori, gode di un largo supporto da parte della popolazione. Circa tre quarti degli intervistati dalla ZDF, televisione pubblica con sede a Mainz, si dice a favore di un’uscita veloce del paese dalla dipendenza dal carbone. Ecco, in parte, il perché il provvedimento sia arrivato alla sua adozione, nonostante l’opposizione esplicita della lobby del carbone.
Il programma di fuoriuscita è composto da 336 pagine e contiene diversi punti salienti. Una revisione triennale degli obiettivi di riduzione dell’utilizzo del carbone è stata pensata per pianificare una graduale, ma perentoria, discesa dei consumi del combustibile fossile più dannoso per l’ambiente. Entro il 2022 dovranno invece essere chiusi circa un quarto degli attuali impianti, per un totale di circa 12,5 Gigawatt di potenza. La commissione non ha specificato quali impianti dovranno essere spenti. Saranno le stesse compagnie a scegliere quali arrestare entro 3 anni. Il piano prevede un’eventuale anticipazione della deadline al 2035 e nel 2032 una speciale commissione deciderà se imporre uno stop anticipato, il quale non dovrà in ogni caso andare oltre il 2038. La Commissione ha previsto lo stanziamento di circa 40 miliardi di euro nei prossimi 20 anni, una cifra che servirà ad accompagnare la Germania fuori dalla dipendenza dal carbone. L’obiettivo principale di tale operazione è il ricollocamento di migliaia di posti di lavoro, attualmente circa 20mila, in altri settori ad alto contenuto innovativo. Il governo tedesco ha anche promesso lo spostamento di 5mila posizioni all’interno della struttura amministrativa federale verso le regioni che verranno più colpite dalla chiusura delle centrali, in particolare quelle della Sassonia, Brandeburgo, Nordreno-Vestfalia e Sassonia-Anhalt.
Proprio in Sassonia si gioca una partita assai importante per gli equilibri politici nel paese. La crescita repentina dei consensi del partito di destra AfD (Alternative für Deutschland) negli ultimi anni è dovuta, in parte, alla capacità della formazione di criticare l’operato in campo economico del governo federale. Oltretutto, la stessa formazione ha bollato i report climatici, stesi dalle Nazioni Unite negli ultimi anni, come “Non scientificamente solidi”. Alice Weidel, membro del Bundestag e fra i personaggi di spicco di AfD, condivide le posizioni di Donald Trump riguardanti il cambiamento climatico in corso e ritiene che sia “impossibile che gli umani abbiano dato inizio alle presenti fluttuazioni”. Va da se che AfD abbia espresso la propria contrarietà alla decisione di Berlino riguardante la fine del ciclo del carbone.
Le condizioni economiche sfavorevoli nel Länder, comparate ad altre regioni del paese, e l’ascesa di AfD, avrebbero potuto intimorire il governo nella scelta di un provvedimento così impetuoso. Ora la parola passerà proprio ai 16 Länder tedeschi, i quali dovranno approvare, o meno, la delibera. Un segnale positivo a livello internazionale, così ha definito il decreto la ministra per l’Ambiente Svenja Schulze, appartenente alle fila dell’SPD. L’enorme interesse e supporto a livello elettorale che le tematiche ambientali riscuotono nel paese ha certamente avuto un peso sull’accelerazione impressa dal governo. L’emorragia di voti sofferta dai socialdemocratici durante gli ultimi turni elettorali, in particolare nei confronti del partito dei Verdi, ha innescato a Sinistra una sfida in positivo fra SPD e Die Grünen, con il tentativo dei primi di far valere la propria posizione all’interno dell’esecutivo e così recuperare terreno in materia ambientale.
La Germania punta quindi a slegarsi dalla zavorra del carbone proprio durante gli ultimi anni di vita delle proprie centrali nucleari. Infatti, nel marzo 2011, a seguito del disastro giapponese di Fukushima, il secondo governo Merkel aveva deciso di chiudere tutte e 17 le proprie centrali entro il dicembre del 2022. Sei mesi dopo la compagnia tedesca Siemens aveva annunciato di volersi ritirare completamente dalla costruzione di qualsiasi centrale nucleare. Nel futuro, il paese che più di ogni altro in Europa ha deciso di investire sulle rinnovabili, si troverà necessariamente costretto ad aumentare gli investimenti in tale settore. Da queste però è impossibile ad oggi poter prevedere di compensare l’intero volume di elettricità prodotta oggi dal carbone. Il miglior candidato “alternativo” alla transizione verso un futuro più sostenibile è necessariamente il gas naturale, di cui però la Germania produce soltanto il 10% dei volumi consumati oggi.
Berlino è già ora il principale importatore di gas naturale di tutta l’Unione Europea, surclassando di gran lunga gli altri stati comunitari. La Germania è al tempo stesso anche il primo importatore singolo di gas russo. Ecco perché la decisione di sabato scorso ha implicazioni ben più larghe di quelle afferenti al singolo paese, soprattutto in un’epoca segnata dalla contrapposizione fra Washington e Mosca riguardante il progetto di costruzione del gasdotto baltico Nord Stream 2. Lo stesso prevede di raddoppiare il collegamento diretto fra la Russia e il suo, ad ora, principale mercato di riferimento. Il tutto mentre gli Stati Uniti sono interessati ad esportare, proprio in Europa, buona parte del proprio gas, prodotto a seguito della rivoluzione del fracking. Ecco perché la scelta del principale mercato energetico europeo è cruciale per il futuro della sicurezza energetica, non solo della Germania, ma dell’intero continente. Una scelta che rischia di inasprire ulteriormente le concrete tensioni geopolitiche riguardanti il futuro energetico dei paesi appartenenti all’Unione Europea.