Ora lo ha confermato anche il giudizio d’appello: il clan dei Fasciani di Ostia è un’organizzazione mafiosa. Dopo un inter processuale lungo e tortuoso, al termine di una camera di consiglio durata tre ore la terza Corte d’appello di Roma ha pronunciato 13 condanne per pene che superano complessivamente i 160 anni di carcere. Nella prima sentenza d’appello i giudici avevano derubricato il reato di associazione di tipo mafioso, riconosciuto in primo grado, in associazione a delinquere semplice, ma la Cassazione aveva ordinato di rifare il processo.

Ventisette anni e mezzo di reclusione i giudici hanno inflitto al patriarca Carmine Fasciani, 11 anni e 4 mesi alla figlia Sabrina, 6 anni e dieci mesi alla figlia Azzurra, 12 anni e 5 mesi alla moglie Silvia Franca Bartoli. Inoltre sono stati condannati, confermando quasi in tutto le richieste del procuratore generale Giancarlo Amato, Terenzio Fasciani (8 e mezzo), Alessandro Fasciani (10 anni e 6 mesi), Riccardo Sibio (25 anni e 3 mesi), John Gilberto Colabella (13 anni), Luciano Bitti (13 anni e 3 mesi), Gilberto Inno (7 anni e un mese), Mirko Mazzoni (10 anni), Danilo Anselmi (7 anni) ed Eugenio Ferramo (10 anni).

Le imputazioni, a vario titolo e a seconda delle specifiche posizioni, vanno dai reati di droga (anche narcotraffico) all’interposizione fittizia, dall’usura alle estorsioni; e, soprattutto, associazione mafiosa e per alcuni casi specifici anche l’aggravante del metodo mafioso. Il processo era tornato in appello dopo che la Cassazione aveva ordinato di svolgere un nuovo dibattimento per valutare l’esistenza dell’aggravante di mafia che in secondo grado era caduta. Il 31 ottobre il procuratore generale aveva chiesto condanne per quasi 177 anni.

La vicenda processuale – Complicata la vicenda processuale che ha visto alla sbarra il potente clan che da decenni controlla il litorale di Roma. Il processo di primo grado si era concluso il 30 gennaio 2015 con pesanti condanne, in totale oltre 200 anni di carcere. In appello, poi, il 13 giugno 2016, cadde l’accusa di associazione e l’aggravante della modalità mafiosa e per dieci imputati le condanne furono più lievi: in primo grado condannato a 28 anni, Carmine Fasciani si era visto ridurre la pena a 10 anni, mentre sua moglie Silvia Bartoli era passata da 16 anni a 6 anni e mezzo.

Il 26 ottobre 2017 era arrivata la decisione della Corte di Cassazione che, ritenendo “processualmente acquisito che la famiglia Fasciani ha costituito un’associazione per delinquere di tipo mafioso con a capo Carmine Fasciani”, ha ordinato di rifare il processo d’appello al fine di riprendere in considerazione l’accusa di mafia, con le relative aggravanti, anche per il narcotraffico.

“Quel giorno il sostituto procuratore generale Pietro Gaeta nella sua requisitoria aveva criticato l’impianto della sentenza di secondo grado, accusandola di “compiere un suicidio logico perché c’è scollamento totale tra le premesse probatorie accertate, i risultati accertati e una motivazione che invece va in rotta di collisione non solo con le premesse sulle quali si fonda ma anche con altre sentenze passate in giudicato e relative agli stessi fatti”. Gaeta aveva inoltre messo in evidenza che il verdetto dell’appello che aveva escluso la mafiosità dei Fasciani, e ridotto notevolmente le pene, “e’ in contrasto con sentenze definitive e questo viola il principio dell’omogeneità dei giudicati che è un caposaldo nel rafforzare la certezza dei cittadini nella giustizia”.

Ad avviso di Gaeta, inoltre, le motivazioni della sentenza d’appello lasciavano “dolorosamente perplessi” anche perché ci si trovava davanti “a una serie impressionante di atti intimidatori”.
“La giornalista Federica Angeli vive sotto scorta da più di quattro anni, e lo dico a chi sostiene che a Ostia non esiste la mafia!”, era sbottato il Pg facendo riferimento alle minacce dei Fasciani alla cronista de La Repubblica che con le sue inchieste ha portato a galla la ‘Piovra’ che avvolge il litorale romano.

Libera: “Mafiosità del clan mai più in discussione” – “Ora nessuno potrà più mettere in discussione la natura mafiosa dei clan che si sono spartiti i traffici illeciti nella Capitale e che per anni hanno condizionatola vita economica e democratica del litorale romano, arrivando sin dentro il cuore della città”, commenta in una nota l’associazione Libera contro le mafie di don Luigi Ciotti, costituita parte civile nel processo.

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