So benissimo qual è stato il giorno più noioso della mia vita: fu quando i miei genitori comprarono la casa al mare, avevo otto anni e passai delle ore nello studio di un notaio, e tra scartoffie e firme sentivo in me una sorta di agonia purissima che stava schiacciando senza pietà la mia voglia di fare smorfie, gridare e scappare. Questa sensazione mortuaria di una fanciullezza intombata la provo ogni volta che vedo Sanremo: sono vittima di una coazione a ripetere masochistica.
Deve essere la stessa sensazione che ha provato Claudio Baglioni o il fanciullino che ancora vive dentro Baglioni: non a caso il festival si è aperto ironicamente con i tre presentatori che cantavano: Voglio andar via. Via da che cosa? Via dalle polemiche, via dal baraccone-Leviatano, via dalla stampa, via dai regolamenti! Giuseppe Ungaretti scriveva: “il mio supplizio è quando non mi credo in armonia”. In effetti, un festival della musica senza un clima di armonia non può che essere un supplizio, e l’espressione di Baglioni era quella di un martire che deve indossare i panni del maggiordomo della vacuità canora, la livrea della Tim che ci vuole portare nello spazio, con una maschera di cera al posto di un volto umano. Sanremo ha questo potere di mummificazione.
Sanremo è una mummificazione collettiva con la quale cerchiamo di arrestare il processo di corruzione della nostra società. In sostanza: per essere vivi, bisogna fare i morti. Questo viene celebrato ogni anno a Sanremo, non altro: le canzoni sono solo un corollario, uno specchietto per le allodole decomposte. Si celebra il nostro essere al mondo da morti, non da vivi. Si celebra il denaro che domina le coscienze, si celebra l’ipocrisia, l’asservimento al potere e al Regolamento con la erre maiuscola.
La musica in tutto questo è solo un fantasma bianco, come il vestito di Paola Turci, l’unica che mi è piaciuta veramente, insieme al brano dei Negrita. Nel gorgo di questa noia mortale arriva
l’unico momento di divertimento, dovuto a un intoppo dell’orchestra. Si crea una sospensione dove l’inossidabile e spiritata Patty Pravo dice: “Sono venuta qui per passeggiare o per cantare?”. Forse era meglio farsi una passeggiata, ma si passeggia quando si è felici, solo quando si è felici.
Non dirò altro sulle canzoni: la parola amore ovviamente si vende come le scatolette di tonno: c’è “amore” per tutti, in tutte le salse, un amore da palcoscenico funebre, un amore irrigidito e pergamenaceo. Amore di mummie. L’amore solo i poeti possono pronunciarlo: amore è “ardere d’inconsapevolezza”, a Sanremo c’è troppa consapevolezza.
Un momento! Non deve mancare nemmeno la finta trasgressione, che cos’è tutto questo amore? Non staremo esagerando? Allora arriva il rapper di turno che ha la facoltà di pronunciare la parola “cazzo”. La parola “cazzo” a Sanremo non significa nulla, è solo un gingillo per confondere le acque dell’annegamento collettivo: non annegano solo i migranti, anneghiamo anche noi in questo varietà dell’immobilità, in questo varietà asettico che non varia mai, dove la politica è presente al massimo grado, proprio perché è assente.
Ancora i poeti ci vengono in aiuto, in questo caso si tratta di Attilio Bertolucci: assenza, più acuta presenza. Il fantasma di Matteo Salvini incombe sul palco dalla prima nota fino all’ultima. È il festival di Salvini, della Tim e della Morte. La libertà, dov’è la libertà? Anche lei un fantasma. Non a caso Baglioni si è affidato a due comici. Un comico dovrebbe essere libero per definizione, dovrebbe essere irriverente, anarchico, impertinente, un comico dovrebbe essere coraggioso come don Chisciotte, altrimenti non è un comico ma solo un pupazzo. La cosa più penosa
è stata vedere i due comici sul palco: dovete immaginarli con la museruola e con il guinzaglio, scodinzolanti di cachet. A me hanno fatto una tenerezza infinita: capisco il dramma, la comicità è vitalità, ma come si fa a essere vitali a Sanremo che è l’ipostasi di un funerale? Un comico dovrebbe ridere della morte, non ridere con la morte.
La verità, questa sconosciuta. Eppure anche a Sanremo è venuta fuori, per un attimo, perché la verità non la puoi soffocare del tutto, anche se ti impegni in modo colossale: la verità sguscia,
viene fuori all’improvviso da una feritoia, da una smagliatura, da una crepa nel sistema, ed è apparsa quando Claudio Bisio ha fatto un gesto fuori dal copione e poi ha detto: “In fondo siamo vivi, no?”. No, caro Bisio, non siamo vivi: vivere è un tentativo che fallisce sempre, vivere è una meravigliosa sconfitta, ma a Sanremo qualcuno deve vincere. Così vuole il mondo dei morti.
©AndreaRaffin / KikaPress