“Profonda preoccupazione per i processi di ‘regionalismo differenziato’ in atto” è stata espressa dai vescovi calabresi nel corso della riunione della Conferenza episcopale regionale, svoltasi a Reggio Calabria. “Forte è il timore che con la legittima autonomia dei territori si possa pervenire a incrinare il principio intangibile dell’unità dello Stato e della solidarietà, generando dinamiche che andrebbero ad accrescere il forte divario già esistente tra le diverse aree del Paese, in particolare tra il Sud e il Nord”. Da qui “l’auspicio di una più serena riflessione sulla questione della politica, ma anche delle università, nell’ottica di una prospettiva di sviluppo unitario che riduca le storiche differenze consolidatesi nel tempo”.
Che sia la Cei a intervenire sulla questione del regionalismo differenziato è un campanello d’allarme che non si può ignorare, ma nello stesso tempo è un atto di grande significato, che ci fa comprendere che il tema dell’eguaglianza degli uomini ha un significato non solo politico, non solo culturale, ma perfino teologico importante.
Nel documento finale la Cei cita le parole di Papa Francesco, dove “l’uguaglianza fondamentale” – come viene definita – è interpretata come una “grazia spirituale”: quindi un dono del Signore, che segna il riscatto dell’uomo da precedenti condizioni di immoralità e di assoggettamento. “L’uguaglianza fondamentale”, quindi, se è una “grazia divina” non solo – dice il Pontefice – non è di nostra proprietà, cioè qualcosa che “ci spetta e che ci appartiene”; ma in nessun modo essa può essere “disprezzata” credendo che vi siano uomini ai quali riconoscerla e uomini ai quali negarla.
Cioè “l’eguaglianza fondamentale” non tollera privilegi, semplicemente perché – dice la Cei – i doni del Signore in quanto tali sono per tutti. I diritti, naturalmente su ben altro piano, sono per tutti esattamente come i “doni del Signore” di cui parla la Cei, e anch’essi non possono essere disprezzati riconoscendo privilegi per qualcuno e svantaggi per qualcun altro. Il diritto alla salute per essere tale non può che dare luogo a una “uguaglianza fondamentale”. Senza eguaglianza fondamentale esso non è più tale.
Il regionalismo differenziato, in tema di sanità, ha come scopo politico la distruzione dell’eguaglianza fondamentale, scopo che per essere raggiunto ha a sua volta bisogno di sostituire ciò che obbliga a essere uguali, con qualcosa che al contrario costringa a essere differenti. Il cuore del regionalismo differenziato è tutto in questa sostituzione e più esattamente quella che al posto del valore del diritto pone il valore del reddito. Mentre il primo rende uguali, il secondo rende diversi. Mentre il primo è un bene collettivo, il secondo è una proprietà privata. Mentre il primo è per tutti, il secondo è solo per alcuni. In che modo il regionalismo differenziato sostituisce tecnicamente il diritto con il reddito?
In un modo molto semplice e inequivocabile: per lo Stato si tratta di non dare più soldi alle regioni in base alle necessità di salute della loro popolazione, ma in base al loro gettito fiscale, cioè in base alla ricchezza che esse producono. In pratica per la sanità le regioni non saranno più finanziate secondo diritto ma secondo reddito. Non più secondo la “grazia del Signore” ma secondo il Pil regionale.
Dietro al regionalismo differenziato, capitanato non a caso dalle regioni ricche contro quelle povere, vi è la teoria dell’egoismo in ragione della quale le risorse che sono prodotte da una regione devono rimanere in quella regione. L’autonomia – che in realtà è autarchia – richiesta a gran forza dal regionalismo differenziato, al di la dei suoi tanti significati giuridici, ha un solo unico fondamentale significato politico: se i soldi sono della regione allora dev’essere la regione che decide come spenderli.
Conciliare l’egoismo con la solidarietà con il regionalismo differenziato diventa molto difficile. Ed è possibile che dal diritto valido anche per il Sud si passi alla carità del Nord verso il Sud, cioè che le regioni del Nord per lavarsi la coscienza concedano un qualche fondo di solidarietà. Tutto questo è bene che si sappia: significa la fine del Servizio sanitario nazionale, quindi la fine del sistema solidale e universale. E sul piano costituzionale, la cancellazione dell’articolo 32 della Costituzione, che sarebbe di fatto così riscritto: “Le regioni (non la repubblica) tutelano la salute in base al reddito delle persone (non più come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività), garantendo agli indigenti e alle regioni più svantaggiate la carità necessaria quale forma di compassione partecipata”.
Trovo abbastanza disgustosa l’ipocrisia di chi, come la ministra Giulia Grillo, ha aperto le porte al regionalismo differenziato del Veneto, della Lombardia e dell’Emilia Romagna, assicurando pubblicamente a questa controriforma la “massima collaborazione” e nello stesso tempo, per ragioni di pura propaganda, fa visite spot negli ospedali senza né capo né coda, non avendo la ministra della Salute nessun potere di intervento sulla organizzazione dei servizi.
Nel contratto di governo certamente c’è scritto che bisogna fare il regionalismo differenziato, ma anche che “l’uguaglianza fondamentale” di cui parla la Cei deve essere difesa. Nel governo quindi c’è, fra le tante contraddizioni, anche quella che riguarda la sanità, ma la sua soluzione non è il populismo ipocrita della ministra. Serve ben altro. La ministra alla Salute faccia il suo dovere. Trovi le soluzioni che servono e se non ne è capace, per il bene del movimento che rappresenta, si faccia da parte. La posta in gioco, come ci ha spiegato la Cei, è tanto grossa da non tollerare né inadempienze né incapacità.