Un appello al dialogo e all’unità nazionale, nel senso che gli altri devono soprattutto stare a sentire e fare quel che dice lui. Parla a lungo, quasi un’ora e mezza, Donald Trump, nel discorso sullo stato dell’Unione rinviato di una settimana “causa shutdown, perché la serrata dei dipendenti federali non garantiva all’evento adeguata sicurezza. Dietro di lui, alla presidenza del Congresso in plenaria, accanto al vice-presidente Mike Pence, la speaker della Camera Nancy Pelosi alza gli occhi al cielo. E i democratici in aula, che dopo il voto di midterm sono tornati maggioranza alla Camera, lesinano gli applausi e non avallano la tregua.

Tanto più che il presidente chiede e non concede: offre terreni di intesa tutto sommato marginali, come un piano per le infrastrutture o un’azione per combattere la diffusione degli oppiacei o ancora un programma per fermare l’Aids in dieci anni dal sapore “obamiano”. Ma Trump tiene duro sull’immigrazione e sulla volontà di innalzare il muro al confine con il Messico, dove annuncia l’invio di altri 3.750 militari per costruire, intanto, una barriera umana. Il magnate, però, non fa riferimento all’eventuale ricorso all’emergenza nazionale per reperire i fondi che i parlamentari gli negano.

In politica estera, il presidente difende le sue scelte: il ritiro delle truppe dall’Afghanistan (parziale) – i negoziati in corso con i talebani sono “costruttivi” – e dalla Siria – “Basta guerre senza fine”; l’abbandono del trattato sugli euromissili con la Russia – è pronto a un nuovo accordo, dove ci sia anche la Cina; l’appoggio all’autoproclamato presidente venezuelano Juan Guaidò – “sostengo la richiesta di libertà del popolo venezuelano”. E conferma un secondo incontro con il leader nordcoreano Kim Jong-un in Vietnam a fine mese, il 27 e 28: “senza di me, oggi saremmo in guerra”. Trump, inoltre, assicura che la sua amministrazione “non distoglierà gli occhi dall’Iran”; ammonisce la Cina: “Basta rubarci lavoro e ricchezza”; garantisce che “l’America non sarà mai un Paese socialista”. E vanta i suoi successi: “Dopo due anni, siamo i numeri uno del pianeta”.

Grandi assenti dal lungo discorso, il cambiamento climatico e i controlli sulle vendite di armi, citati, invece, da Stacey Abrams, la candidata governatrice della Georgia sconfitta a novembre, ma molto popolare fra i democratici, che le affidano la loro replica. Chuck Schumer, leader dell’opposizione al Senato, dice: “Il presidente invoca l’unità, ma non fa che dividere”.
È un discorso quasi normale, se confrontato con quelli apodittici cui Trump ci ha abituato: dà l’immagine di un uomo al comando, ma anche di un uomo sempre più solo. Il magnate si prende una standing ovation solo quando rende omaggio alle donne in Congresso – non sono mai state così numerose: si alzano in piedi anche le democratiche, una grande macchia bianca perché tutte vestono il colore delle suffragette e della solidarietà per i diritti di genere (l’anno scorso avevano invece scelto il nero, il colore di #MeToo).

Che l’aria nel Congresso non sia proprio favorevole al presidente lo aveva certificato, nella giornata di martedì, un voto del Senato a maggioranza repubblicana, che lo diffida dal ritirare le truppe Usa dalla Siria e dall’Afghanistan in maniera precipitosa e che chiede che la sconfitta di al Qaida e Isis, più volte sbandierata da Trump, sia prima “certificata”. E nell’imminenza del discorso s’è appreso che i procuratori federali di New York vogliono interrogare i vertici della Trump Organization, “forziere” di famiglia oggetto di inchieste su sospetti finanziamenti elettorali illegali. Si indaga pure su donazioni sospette al comitato inaugurale del 45° presidente degli Stati Uniti.

Forse perché avverte che il clima politico è cambiato (almeno di quello si accorge), coi democratici rinfrancati dal voto di midterm e pronti a evocare scenari di impeachment sul Russiagate, Trump chiede pacificazione: “Basta con stupide guerre politiche e con queste indagini ridicole e di parte [quelle contro di lui, ovviamente, ndr]. No alla vendetta e alla resistenza, bisogna scegliere la strada della grandezza”: la “caccia alle streghe”, come lui bolla l’inchiesta sui contatti tra la sua campagna del 2016 ed emissari del Cremlino, rischia di bloccare l’America. Che ha, invece, bisogno di unità.

“La mia agenda non è un’agenda repubblicana o democratica – afferma il presidente -, ma è l’agenda del popolo americano. Insieme possiamo spezzare decenni di stallo, superare le vecchie divisioni, curare le vecchie ferite, costruire nuove coalizioni, forgiare nuove soluzioni e sbloccare il futuro dell’America. La decisione è solo nelle nostre mani”. Una retorica “rotonda”, tradizionalmente americana, ma inconsueta per il magnate. Però i problemi restano aperti: lo shutdown riprenderà a metà febbraio, se non ci sarà un’intesa sul finanziamento del muro. L’affondo sull’immigrazione è netto: “Sarà costruito … perché abbiamo il dovere morale di creare un sistema immigratorio che protegga le vite e il lavoro dei nostri cittadini. Il muro salva vite e rende l’America più sicura”. Quando il presidente parla di “terribile invasione in arrivo”, sguardi al cielo e scuotimenti di testa in aula diventano una contagiosa risatina.

Trump avrebbe lavorato fino all’ultimo sul suo testo, insoddisfatto perché i suoi ghostwriters sarebbero stati troppo morbidi con gli avversari politici, “ricchi che vogliono confini aperti, ma vivono dietro i muri delle loro case”. E non evita temi divisivi, come lo stop sull’aborto tardivo. Fra il pubblico in tribuna, un bambino vittima di bullismo a scuola perché fa Trump di cognome e Judah Samet, sopravvissuto all’Olocausto e superstite della strage alla sinagoga di Pittsburgh: senatori e deputati in piedi gli intonano “Buon compleanno”, visto che oggi compie 81 anni.

I social, come l’audience, non impazziscono per il discorso. La cravatta, storta, attira più attenzione e ironia delle parole: “Fix the Tie!”, aggiustatela, suggerisce il web, “qualcuno glielo dica”. Ma Melania sta in tribuna; e Nancy non ci pensa proprio.

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