La seconda serata di Sanremo – si sa – è la più difficile. Se la prima è andata bene c’è il rischio di un calo di concentrazione, se è andata male l’urgenza di riscattarsi può giocare brutti scherzi. Teniamo dunque conto di questa regola nel giudicare quanto di buono e di cattivo ci ha offerto la serata di ieri. Che, forse per togliersi e toglierci il pensiero, il peggio l’ha proposto subito con la gag di Virginia Raffaele impegnata a tradurre il regolamento per i telespettatori stranieri collegati in mondovisione. Lasciamo stare i sospetti di razzismo e altre simili stupidaggini. Le smorfie da cinesina, gli eccessi di calore ispanici e i grugniti da coatta non hanno nulla a che fare col razzismo, ma restano cionondimeno imbarazzanti. Un giochino un po’ sciocco, puerile, vecchiotto, con una venatura dilettantesca e una componente fastidiosamente provinciale.
Il meglio invece è arrivato a metà serata. L’idea di fare un festival tutto incentrato sulla musica italiana, sui suoi grandi autori e interpreti del presente e del passato, è una buona idea. Ma non è facile da portare avanti con coerenza e originalità. Il rischio di girare sempre attorno agli stessi temi, agli stessi personaggi, alle stesse musiche riproponendo uno stucchevole déjà vu è forte. Finora però è stato evitato brillantemente. Ieri la scelta di omaggiare un musicista un po’ trascurato come Lelio Luttazzi è stata vincente. Divertente, ironica, tipica dello stile del suo autore la canzone Il mio tipo ideale, perfetta l’esecuzione suonata, cantata e ballata da Claudio Baglioni, ma soprattutto decisiva per liberare Virginia dalla tendenza a stare sempre sopra le righe, dalla cifra comica eccessiva, farsesca, riportandola a quella dimensione di spontaneità e di leggerezza in cui dà il meglio di sé. Un momento così piacevole che alla fine ci ha lasciato un rammarico: ma di canzoni di Luttazzi non se ne potevano fare più di una?
©AndreaRaffin / KikaPress