Uomo semplice della bassa padana, anima a sinistra nell’era del disfacimento post ideologico, insana passione per le chitarre e il rock and roll, voglia malinconica di affermarsi senza perdere le proprie radici popolari
Una vita da mediano. Metafora calcistica fu mai più calzante. Luciano Ligabue, che arriva a Sanremo dopo l’apparizione del 2014, quella prima volta dopo vent’anni di sano disinteresse reciproco, non è tipo da punizioni funamboliche o calci d’angolo a rientrare. Uomo semplice della bassa padana, anima a sinistra nell’era del disfacimento post ideologico, insana passione per le chitarre e il rock and roll, voglia malinconica di affermarsi senza perdere le proprie radici popolari. Luciano il ragioniere ha macinato chilometri di campi di calcio come consumato centimetri su centimetri di suole di stivali sui palchi dei concerti live. “Ero un calciatore di grande carattere, di intensità agonistica”, raccontava il Liga al fido Bertoncelli anni fa.
Un mediano ragazzino della Correggese che di fronte al provino di Parma e Cagliari si fece di nebbia perché avrebbe avuto libero solo il lunedì e perché gli piaceva da morire una compagna di classe. Ma Ligabue, oggi un quasi arzillo sessantenne (ne fa 59 a marzo), non gliel’ha mai mandata a dire a nessuno. Altro che maledettismo grunge o droghe e sesso post punk (caro Vasco ti scrivo…). Liga lo spleen della provincia reggiana non se lo scrosta di dosso nemmeno con il napalm. Neppure dopo le folle osannanti dei tanti Campovolo. Neppure raggiunti milioni su milioni di dischi venduti. Dacci oggi il nostro grezzo e drastico dolore quotidiano. “Certe notti se sei fortunato bussi alla porta di chi è come te”, canta. E da quel cul de sac esistenziale, una roba più da proletariato alla Ken Loach o da loser del Bronx newyorchese, non ne esci di certo vestendoti da clown dello showbiz. E il Liga in questo è stato coerente, sincero, diretto, fin da subito e attraversando undici album dal vivo e cinque live. Quando la WEA lo chiamò al telefono per dirgli che si registrava il suo debutto in 45 giri, Luciano era a tavola con i familiari e stava mangiando tortellini e lambrusco (i pop corn solo in un secondo momento). Dubitiamo che oggi sbocconcelli sushi selezionando rossi d’annata. Ligabue rimane uno di quei signori schivi, concreti, dalla pelle dura, che sulla via Emilia macinano sogni, lacrime e cancri lanciati alle ingiustizie del mondo.
L’anelito felice e ribelle delle radio libere, i Sogni di rock and roll che fendono l’aria degli umidi e gelidi inverni padani, niente cover please che siamo anime in plexiglass. L’inizio del Liga è verso la fine degli anni ottanta. Angelo Carrara, Pierangelo Bertoli, i ClanDestino, le sale polivalenti dei paesini reggiani. Venti milioni per un disco da quattro tracce allo studio Psycho di Milano nel 1989 con quello che si dice l’insostituibile aiuto di Paolo Panigada/Feiez degli Elio e le storie tese. L’ex metalmeccanico, l’ex bracciante, l’ex consigliere comunale (indipendente) nella fila del defunto Pci, piazza Balliamo sul mondo nel megafono del Festivalbar. Si sparge la voce che lui e la sua band siano trascinanti dal vivo. Pane, salame, chitarre e uno show denso da cantare e saltare. Luciano esplode con Ligabue (1990); Lambrusco, coltelli, rose e pop-corn (1991); poi stecca con Sopravvissuti e sopravviventi (1993); si rialza cambiando manager e band prima con A che ora è la fine del mondo (1994) dedicata alla discesa in campo del presidente della Fininvest (“un giorno ero a casa incazzatissimo … Berlusconi aveva vinto le elezioni e trovavo intollerabile che questa cosa fosse capitata dal niente, in un attimo, con la spudoratezza di un evento tv come aveva fatto lui”);infine l’affermazione nazionale di Buon compleanno Elvis (1995). Oltre un milione di copie vendute in pochissimo e una filosofia umile, pochi grilli per la testa e pedalare, che è meglio ricordare: “Non è un disco alla Elvis o su Elvis(…) Noi veniamo educati fin dalla più tenera età a pensare che la vita sia un inseguimento del successo (…) Elvis è stato un caso clamoroso di successo e la dimostrazione che quella facile lezione non è così vera, o che perlomeno c’è un limite. Lui ha avuto tanto successo, troppo e il suo ego è diventato così grasso e vulnerabile da scoppiare. Di quello è morto, di troppo” (Vivere a orecchio – Giunti).
Da quel dì Ligabue non lo ferma più nessuno. Anche se non è facile rimanere sospeso per aria a osservare le stelle del rock e le nostalgie dell’anima. Sembra perfino strano che all’apice del successo arrivi un libro – Fuori e dentro al borgo – che reitera il concetto, per chi non l’avesse capito: vado, conquisto la hit parade e torno a casa. Idem con pellicola – Radiofreccia – un compendio anni settanta di disillusioni ribelli e ruspanti, “la vita non è perfetta!”, richiesto dal produttore indie di quel momento, Domenico Procacci con la sua Fandango. Cinema per cui Ligabue prese parecchio gusto tanto da doppiare l’esperienza (Da zero a dieci, 2002), e triplicare il godimento da regista sedici anni dopo con Made in Italy, un vero e proprio atto d’amore per il proprio angolo di mondo reggiano tentennante, addolorato, travolto dalle storture delle modernità ma sempre fiero di non piegare la testa, magari in modo un po’ naif, di fronte alle avversità. Inutile, infine, elencare titoli e brani che canticchia mezza Italia sotto la doccia, in fila sulla tangenziale, davanti a Youtube. Ligabue ha messo in fila 165mila 264 persone in una sera del 2005 ad ascoltarlo (record europeo). Vasco Rossi lo sorpasserà qualche anno dopo nel 2017 con 180mila, ma come dire: il Liga ci ha messo 15 anni, Vasco 40. Ad ognuno il suo rocker.