“Liberare l’Africa dal franco Cfa, moneta coloniale che ne impedisce lo sviluppo. E pubblicare gli accordi di decolonizzazione per ricostruire il sistema predatorio che impoverisce tutto il Continente, anche attraverso una commissione d’inchiesta al Parlamento Ue”. A chiederlo è Otto Bitjoka, economista e presidente dell’associazione panafricanista Ucai (Unione comunità africane d’Italia), raggiunto al telefono da ilfattoquotidiano.it. Afro-italiano, da 40 anni a Milano e laureato alla Cattolica, Bitjoka è stato amministratore delegato di una banca in Camerun ed è il fondatore di Extrabanca, istituto per stranieri in Italia. Sostiene la necessità di eliminare il franco Cfa, “simbolo di colonizzazione” dal quale a suo parere è oggi impossibile liberarsi, nonostante il presidente francese Emmanuel Macron abbia più volte ribadito che quella dei Paesi africani è un’adesione volontaria: “Dimentica che chi ha provato a uscirne è stato ammazzato o deportato mentre nel suo Paese era in atto un colpo di Stato“. Bitjoka considera “una balla” anche dire che “non si scappi da questi Paesi” perché “le migrazioni interne all’Africa sono tantissime”.
Il franco Cfa, l’argomento al centro dello scontro tra Roma e Parigi dopo le dichiarazioni in particolare del vicepremier Luigi Di Maio e dell’ex deputato Alessandro Di Battista, è la moneta stampata in Francia e adottata da 15 Paesi dell’Africa subsahariana, che formano la cosiddetta ‘zona franco’. Tutte ex colonie francesi, tranne la Guinea-Bissau, ex colonia portoghese, e la Guinea Equatoriale, ex colonia spagnola. Il Cfa indica due valute. Nella prima (Uemoa), che copre la zona dell’Africa occidentale, rientrano Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo. Nella seconda (Cemac), che copre la zona dell’Africa centrale, rientrano invece Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana e Repubblica del Congo. I Paesi sono 15 con le Isole Comore, indipendente dal 1975 dalla Francia. Nella ‘zona franco’ vivono quasi 200 milioni di abitanti. Istituito il 26 dicembre 1945, alla firma degli accordi di Bretton Woods, come franco delle colonie francesi d’Africa (Fcfa), nel 1958 è diventato Cfa (franco della comunità francese d’Africa, oggi Comunità finanziaria africana).
Signor Bitjoka, partiamo dalla fine. Ha manifestato apprezzamento per la posizione del M5s sul franco Cfa. È una scelta politica?
“No, io sono indipendente e senza alcuna tessera di partito. Non sono grillino, ma quelle portate alla luce dai Cinquestelle sulla moneta coloniale sono verità e non posso che sostenere chiunque porti avanti queste battaglie”.
Lei ha parlato di ‘moneta coloniale’, ma le colonie non esistono più. Perché?
“La decolonizzazione non c’è mai stata, i cambi di nome sono un imbroglio semantico. La moneta è un simbolo di colonizzazione e danneggia anche concretamente i Paesi che la adottano”.
In che modo?
“Prima devo spiegarle le caratteristiche del Cfa: tasso fisso, stabilità dei prezzi, convertibilità garantita dal Tesoro francese nei confronti dell’euro e libertà di trasferimento, in entrata e in uscita”.
Queste possono essere anche caratteristiche positive.
“Non è detto, dipende dai punti di vista. Ci sono diversi problemi, a partire dal cambio fisso. La ‘zona Franco’, che produce quasi il 12% del Pil africano, non ha alcun vantaggio competitivo con la globalizzazione: dal momento che il cambio è fisso, non si può svalutare. Non c’è una politica di cambio e quindi manca la competitività. Poi c’è un altro grande limite”.
Quale?
“I depositi in valuta sono presso il conto d’operazioni del Tesoro francese, che detiene il 50% delle riserve valutarie. Se la Costa d’Avorio vende cacao per un miliardo di euro, mezzo miliardo deve restare come riserva valutaria al Tesoro francese. Non bisogna dimenticare, poi, che la Francia ha il diritto di prelazione su tutto e determina anche il prezzo che più le conviene”.
Lei vorrebbe eliminare questa moneta?
“Sicuramente. La moneta garantisce un’inflazione controllata, ma non una politica monetaria espansiva. Le valute delle due aree, tra l’altro, non sono intercambiabili, quindi se vado in Senegal con i soldi che si usano in Camerun non posso far niente, se non cambiarli. Se proprio dovesse rimanere, bisognerebbe almeno fare una modifica”.
Quale?
“Agganciare il franco Cfa a un paniere monetario, allargando lo spettro rispetto al solo euro. Se il cambio fisso fosse anche con altre monete, per esempio dollaro, yen e yuan, potremmo trattare con altri Paesi usando direttamente dollaro, yen o yuan, senza passare per l’euro”.
Molti, però, a partire da Macron, dicono che l’adesione al franco Cfa è stata volontaria. E che è possibile abbandonarlo, se si vuole.
“Macché. Chi lo dice dimentica che chi ha provato a uscirne è stato ammazzato o è stato deportato mentre nel suo Paese era in atto un colpo di Stato. Se c’è tutta questa libertà perché la Francia ha convocato l’ambasciatrice italiana Teresa Castaldo per chiarimenti?”
Quali sono gli esempi a cui fa riferimento?
“Ce ne sono tanti, ma le cito solo questi. Nel 1963 Sylvanus Olympio, primo presidente eletto del Togo, si rifiuta di sottoscrivere il patto monetario con Parigi e dispone una moneta nazionale. Tre giorni dopo viene rovesciato e assassinato in un colpo di Stato condotto da ex militari dell’esercito coloniale francese. Nel 1968 Modibo Keita, primo presidente della Repubblica del Mali, annuncia l’uscita dal franco Cfa, ma subisce un golpe guidato da un ex legionario francese. Ancora, nel 1987 Thomas Sankara, primo presidente del Burkina Faso indipendente, viene detronizzato e ucciso subito dopo aver dichiarato la necessità di liberarsi dal franco Cfa. Nel 2011 il presidente della Costa d’Avorio, Laurent Gbagbo, decide di abolire il Cfa sostituendolo con la Mir, Moneta ivoriana di resistenza. Ma le forze speciali francesi lo arrestano dopo aver bombardato il palazzo presidenziale. Questa è storia, per non parlare di Gheddafi”.
C’entrava il Cfa anche con la deposizione di Gheddafi?
“Certo. Nel 2011, quando è stato ammazzato, c’era proprio la questione della sovranità monetaria in ballo. Lui voleva creare una nuova valuta panafricana, il dinaro libico, sostenuta dalle ingenti riserve auree di Tripoli, proprio in alternativa al franco Cfa. Gheddafi e l’Unione africana avevano già deliberato la creazione di un Fondo monetario africano con sede in Camerun, di una Banca africana di investimento in Libia e di una Banca centrale africana in Costa d’Avorio”.
Secondo lei, quindi, gli accordi tra la Francia e i Paesi della Françafrique non sono stati presi in una condizione paritaria?
“Certo che no. Infatti quello che chiedo è che gli accordi di decolonizzazione siano resi pubblici. Sono segreti e vogliamo che vengano desecretati, per ricostruire il sistema predatorio. Anzi, faccio un appello ai Cinquestelle: chiedete l’istituzione di una commissione d’inchiesta al Parlamento europeo per desecretare gli accordi di decolonizzazione. Anche François Mitterrand e Jacques Chirac lo avevano detto, che senza l’Africa la Francia sarebbe in un mare di guai”.
Leggendo i dati sulle migrazioni, però, si evince che solo una piccola quota di migranti che arrivano in Italia proviene dalla ‘zona franco’. Come mai?
“Questo non vuol dire niente. Le migrazioni interne all’Africa sono tantissime: è una balla dire che non si scappi da quei Paesi. Solo il Camerun ha 250mila rifugiati, molti africani emigrano in Sudafrica. Migrare è cercare di migliorare le proprie condizioni, è un ‘welfare shopping’ che vale per tutti gli uomini, anche per gli italiani che vanno a Londra. I Paesi della zona franco sono tra i più poveri del mondo, ma se ci fosse la sovranità monetaria si potrebbe avere sviluppo, creando lavoro e quindi ricchezza”.
Però in Africa non ci sono solo i francesi. I problemi sembrano venire anche da altri, pensiamo ai cinesi.
“Sì, ma nella ‘zona franco’ i problemi partono dal controllo francese. Una volta resi pubblici i contratti di decolonizzazione, come dicevo, potremo ricostruire il sistema che consente di depredare l’Africa, perché lì ci sono Paesi ricchissimi di materie prime. La Francia prende l’uranio in Niger. Poi l’Italia compra l’energia dalla Francia. Tutto il Golfo di Guinea è ricchissimo, lì c’è di tutto. In Congo c’è l’80% di coltan di tutto il mondo: è un minerale necessario per produrre i cellulari. In Costa d’Avorio c’è il cacao e così via. È chiaro che la liberazione deve avvenire non solo a livello monetario”.
Cosa intende?
“Anche dal punto di vista sociale, linguistico e spirituale. Lo swahili per esempio è diventato lingua ufficiale riconosciuta dall’Unione africana. La spiritualità, poi, aggrega molto: il Vangelo è stato usato come strumento di colonizzazione. Bisogna rivedere tutto il sistema”.
Anche l’Italia ha avuto delle responsabilità in Africa, però.
“L’Italia ha avuto un colonialismo straccione e le sue responsabilità sono limitate. Poi ognuno fa i conti con la propria coscienza”.
E l’Eni?
“L’Eni, che pure ha le sue responsabilità, è un gruppo che fa parte dell’aristocrazia capitalista. Noi dobbiamo concentrarci sul franco Cfa e fare pressione affinché la Francia ci lasci stare. Dovrebbe fare come il buon padre di famiglia: lasciare che i suoi figli si emancipino”.
Poi però ci sono anche le responsabilità degli africani. I casi di corruzione sono moltissimi.
“Molti presidenti sono corrotti e permettono la rapina di risorse. Ma a questo penseremo una volta liberati. Gli africani vogliono questo e lo dimostra il fatto che lì le tv stanno parlando del caso sollevato dall’Italia. Siamo determinati e lotteremo”.