Non passa giorno che qualcuno non intervenga a dire che la cifra del reddito di cittadinanza, così come pensata dal nostro governo, è troppo elevata e pertanto disincentiva al lavoro. Lo ha fatto anche il Fondo Monetario Internazionale, sostenendo che “il reddito è fissato al 100% della linea di povertà relativa in confronto al 40-70% delle buone pratiche internazionali”. Stessa posizione quella di Confindustria, che attraverso il suo direttore dell’area welfare (!) ha detto che poiché i salari dei giovani si aggirano esattamente sulla cifra del reddito, e cioè 700-800 euro, il rischio manifesto è che si scoraggi la gente dal lavorare. Analoghe considerazioni le ha fatte Tito Boeri dell’Inps.
Ora, come è stato ampiamente scritto da questo giornale – negli articoli sul quotidiano cartaceo di mercoledì di Daniela Ranieri e Alessandro Robecchi – c’è veramente da chiedersi con che coraggio le élite politiche e finanziarie possano fare queste affermazioni. Per fare una metafora: è come se si dicesse che siccome un povero campa con un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua è meglio dargli mezzo tozzo di pane e mezzo bicchiere d’acqua, altrimenti lo si scoraggia dal procacciarsi il cibo da solo.
In altre parole, invece di ammettere la vergogna assoluta di lavori sottopagati, nel Paese dove non esiste un salario minimo in moltissimi settori – giornalisti compresi, ci tengo a dire – si certifica che lo sfruttamento è ciò che dovrebbe essere, e che pertanto le misure antipovertà devono essere inferiori a quegli stipendi che comunque non tolgono le persone dalla povertà. È evidente che simili esternazioni possono venire solo da chi guarda con sospetto chi vive di lavori precari e malpagati, forse perché sono tra l’altro lavori che tanto fanno comodo anche a quei datori di lavoro che ormai hanno praticamente a disposizione un esercito di semi-schiavi disposti a fare qualunque cosa pur di avere un minimo di reddito.
Diciamolo: se ho un lavoro di 700-800 euro, è difficile che lo lasci per un reddito di cittadinanza (e lo stesso vale a maggior ragione per i lavori dagli 800 in su). E il motivo è che comunque, anche se guadagno poco, sono inserito all’interno di un mercato del lavoro che in ogni caso è sempre rischioso lasciare. Oltretutto, rischierei di avere offerte di lavoro non consone ai miei desideri e alla mia formazione, oppure situato dall’altra parte del Paese, e ritrovarmi alla fine magari senza reddito e senza lavoro precario.
Se invece quel lavoro precario lo lascio, allora vuol dire che la mia situazione è oggettivamente disperata perché il mio orizzonte è davvero senza speranza. E che la carta del reddito, con i suoi servizi (teorici) di orientamento e di offerta di lavoro – e pure con tutti i suoi limiti di cui scrivo più avanti – rappresenta una prospettiva meno terribile di continuare a vivere nella sfruttamento. Per come è stato concepito poi, il reddito non prevede percettori che non lavorino, visto che si viene buttati fuori dopo tre offerte di lavoro e visto anche che il sussidio è temporaneo. Dunque le nostre preoccupate élite dovrebbero stare tranquille, anche perché forse non considerano che il reddito è ancora più basso nel caso di casa di proprietà.
Molto meno tranquilli, dal mio punto di vista, dovrebbero stare invece i poveri e i disoccupati, ma anche i sottoccupati e precari. Perché invece questa misura, così come è stata pensata e strutturata, presenta carenze e contraddizioni, che vanno contro i potenziali percettori. Anzitutto, come hanno segnalato i sindacati, c’è un rischio effettivo di confusione tra contrasto alla povertà e politiche attive del lavoro, cioè tra persone bisognose di solo reddito ma non in grado di lavorare e disoccupati veri e propri.
Altri aspetti molto criticabili sono quelli che riguardano le tre offerte, tra cui quelle fuori sede. Ci sono persone, specie quelle con figli, che oggettivamente non possono spostarsi. Spostarsi, inoltre, potrebbe non essere conveniente se uno deve pagare un altro, ulteriore affitto. Altro punto, su cui la Caritas ha puntato il dito, è la questione dei senzatetto, privi di residenza, e dei migranti: dieci anni di residenza sono un tempo infinito, che finisce per escludere buona parte di chi ha davvero più bisogno. Infatti, si tratta di una misura potenzialmente incostituzionale, che è stato notato da più parti.
Ma il problema di fondo del reddito a Cinquestelle, così come è stato pensato e applicato – forse troppo in fretta – è che concepisce il lavoro fosse un fatto meccanico, una quantità. Invece purtroppo il lavoro non si produce come qualsiasi bene industriale, non si “trova” scavando come si trovano funghi e tartufi. E questo è un problema enorme che i nostri politici non affrontano.
Un problema ancor più grande sta in come viene trattato il percettore del reddito: per la paura del famoso divano su cui si siederebbe la gente senza far nulla, si è stabilito appunto che dopo tre offerte non si sia più degni di prendere il reddito. Ma lo stesso lavoratore non è un robot, ma una persona con una storia e una formazione, che magari va approfondita e completata per andare incontro sia alle sue esigenze che a quelle del datore di lavoro. Non c’è nulla di automatico in questo processo, nulla. Si può rifiutare un lavoro per motivi anche giusti. Perché magari non va bene per me. Perché non c’entra con la mia formazione (tra l’altro, non è ancora assolutamente chiaro cosa si intenda per “lavoro”: un contratto a tempo indeterminato? Oppure anche determinato? Una collaborazione? Un incarico?).
In un certo senso, e paradossalmente, sia il governo che i critici del reddito condividono la stessa visione del disoccupato sottopagato. E cioè quella di una specie di furbastro intenzionato solo a prendersi il malloppo e non a costruirsi una vita dignitosa, con un lavoro che ama e con una prospettiva di vita decente e che includa, incredibile, persino la costruzione di una famiglia. Ma perché funzioni, il reddito deve partire dalla persona nella sua unicità. E prevedere strumenti che proteggano questa unicità e al tempo stesso utilizzino le specificità e la formazione dei singoli per trovare un lavoro consono per il lavoratore e per l’impresa che l’assume. Anch’essa, si spera, interessata non tanto a prendere il malloppo del reddito per un’assunzione a breve termine, quanto ad avere una persona davvero di valore e che risponda alle sue reali esigenze.
Questa è la vera sfida e purtroppo mi sembra che gli strumenti messi in campo – a partire dall’assurdità dell’esclusione all’accesso alla selezione per i cosiddetti “navigator” di laureati in materie umanistiche e magari già formati nel campo delle risorse umane, come ho già scritto – non siano all’altezza di questo certamente obiettivo. Titanico certo, ma che forse avrebbe richiesto una misura pensata in maniera più complessa. Rischiamo invece che si trovi poco lavoro e di scarsa qualità per persone poco formate e scolarizzate. Mentre i disoccupati formati e laureati saranno davvero scoraggiati. Non ad accettare il lavoro, quanto il reddito. Preferiranno perderlo e cercare da soli, perché probabilmente ciò che gli sarà offerto non sarà armonico con quello per il quale hanno studiato o, persino, già lavorato.