In questi giorni si sta discutendo molto di “trivellazioni”, cioè della produzione di gas e petrolio sul territorio italiano. Limitare e modificare le regole sull’estrazione degli idrocarburi in Italia è infatti una delle bandiere del M5s, non ultimo perché costituisce il fulcro di una politica di difesa del territorio e un modo per scoraggiare la produzione di energia da fonti fossili. Ciò è tanto più importante in quanto oggi l’Italia è il maggiore produttore di petrolio su terra ferma in Europa e produce quantità significative gas dalle piattaforme offshore.
Le recenti misure del Dl Semplificazioni riguardanti una moratoria di 18 mesi sulle trivellazioni e sull’aumento dei canoni vanno nella direzione giusta, ma sono ancora troppo timide per segnare un’autentica inversione di rotta. L’esempio offerto dalla produzione britannica di petrolio nel Mare del Nord può fornire qualche indicazione sugli errori da evitare e sulle misure da adottare.
Lo sviluppo del petrolio del Mare del Nord alla fine degli anni 70 ha svolto una funzione fondamentale nella storia degli idrocarburi. Ha consentito l’arrivo di nuovo petrolio da regioni non-Opec con la conseguenza di indebolire il controllo che l’Opec aveva allora sul mercato mondiale. Ha permesso lo sviluppo di nuove tecnologie per l’estrazione in alto mare in condizioni climatiche molto dure. In generale è stato uno dei fattori che ha fatto crollare i prezzi del petrolio negli anni 80, riportandoli a dove erano con lo shock petrolifero del 1973 e incoraggiando (purtroppo) un significativo aumento dei consumi.
Meno noto è che il Mare del Nord britannico è stato anche il terreno di sperimentazione mondiale di una nuova “governance” delle risorse naturali basata sulla riduzione degli ingressi fiscali, sulla totale estromissione delle Stato dalla produzione e sull’incoraggiamento dell’investimento privato. Progressivamente negli anni 80 il governo Thatcher ha eliminato o minimizzato ogni strumento fiscale dello Stato per incamerare la rendita petrolifera (principalmente royalties e la Petroleum Revenue Tax) e si è liberato della partecipazione diretta nell’industria, prima la compagnia statale Bnoc, poi Bp e poi British Gas. Le privatizzazioni britanniche nel settore degli idrocarburi negli anni 80 sono state le più grandi privatizzazioni del mondo occidentale.
Il risultato di queste politiche sono state devastanti per le casse britanniche e a tratti paradossali. Citiamo alcune di queste conseguenze da un recente studio di Juan Carlos Boué, avvocato ed esperto di petrolifera. Nel 2016 lo Schleseig-Holstein, un piccolo produttore del Mare del Nord, pur estraendo solo il 2% di quanto prodotto dalla Gran Bretagna ha ricevuto dalle compagnie petrolifere 57 milioni di dollari, mentre lo stesso anno la Gran Bretagna ha dovuto restituire alle compagnie 322 milioni di dollari (cioè è andata in rosso). Un altro calcolo sconcertante di Boué è che se la Gran Bretagna avesse adottato lo stesso regime fiscale dei suoi vicini del Mare del Nord, come la Danimarca e la Norvegia, Londra avrebbe ricevuto un totale tra i 92 e i 108 miliardi di dollari di entrate in più, cifra che le avrebbe permesso per esempio di pagare agevolmente quanto dovuto per la Brexit.
Che c’entra l’Italia con il disastro britannico? L’Italia ha una governance del settore dell’estrazione petrolifera se possibile ancora più favorevole agli investitori privati della Gran Bretagna. Il livello di royalties è ridicolo quando paragonato a quelle prevalenti nel resto del mondo, specie perché ci sono significative esenzioni fino a un determinato livello di produzione. La tassazione (dunque non le royalties che sono un costo) non mira a recuperare tutta la “rendita petrolifera” ma, a parte per la Robin Tax, è molto simile a quella per le imprese che producono beni riproducili (mentre gli idrocarburi sono una risorsa naturale non rinnovabile e come tale dovrebbero essere sottoposti a una tassazione specifica).
Questo Governo ha fatto alcuni passi avanti per limitare il potere della lobby delle fossili. Non basta però. Oltre a bloccare nuove concessioni per ricerca e produzioni di idrocarburi, bisogna moltiplicare subito il livello attuale delle royalties in modo che a una produzione più bassa corrispondano entrate fiscali per lo Stato maggiori. Da un raddoppio delle royalties il governo potrebbe guadagnare per esempio circa 400 milioni di euro rispetto allo scorso anno.
Si sente parlare di cause milionarie e di penali in caso di modificazione delle norme sulle concessioni. Ma non può essere impedito a uno Stato sovrano di decidere il livello di tassazione più adatto al benessere dei propri cittadini e alla tutela del territorio nazionale. Questa prerogativa di un governo non è negoziabile. Il livello di tassazione nel caso delle risorse naturali deve essere abbastanza alto da lasciare ai privati appena quel tanto da giustificare il loro investimento, ogni margine di profitto superiore a questo minimo è un’appropriazione indebita delle rendita che deriva dall’esaurimento di un bene collettivo.