Gabriella Luccioli era la presidente della I sezione civile della Suprema corte che, il 16 ottobre 2007, accolse il ricorso del padre permettendo alla corte d'appello di Milano, dopo una istruttoria, di autorizzare lo stop all'idratazione e all'alimentazione forzata. Da quel giorno passarono 16 mesi: "Un momento oscuro della politica. Un sovvertimento totale dei principi di diritto"
La luce di un “faro”, la Costituzione, e dopo un “momento oscuro della politica“, “un momento di barbarie giuridica”. È il ricordo di quei mesi, confusi e terribili, in cui chiunque aveva da dire la sua su Eluana Englaro, di Gabriella Luccioli, presidente della I sezione civile della Cassazione, che il 16 ottobre 2007 stabilì di fatto che la “dignità è il diritto dei diritti”. Un verdetto che fissò un principio giurisprudenziale diventato il seme per la riflessione sul fine vita: e cioè che certificato un stato vegetativo permanente e irreversibile e accertate le volontà, ogni persona ha diritto a rifiutare le cure, anche se quello significa morire.
Tra quel verdetto che alcuni bollarono come l’ordine a eseguire un “omicidio di Stato” e il riconoscimento del diritto di Beppino Englaro di aderire alle volontà della figlia, dal 1992 “orfana di vita” e “priva di morte” per un incidente stradale, passarono altri sedici mesi. La politica intraprese “una ossessiva rincorsa a impedire che una sentenza legittimamente emessa dai giudici venisse eseguita” ricorda la toga in pensione dal 2015, dopo 50 anni di servizio, prima donna ad arrivare alla Suprema corte.
La giurista, che ha firmato la sentenza per l’affidamento di un bambino a una coppia omosessuale, ricorda che si sollevò un conflitto di attribuzione dei poteri, si chiese udienza a Strasburgo, si preparò un decreto che non fu firmato dal Quirinale. Tutto mentre si rifiutava appunto “il diritto dei diritti“. Poi dopo uno “sconquasso” la ragazza, diventata donna in un lettino, idratata e alimentata artificialmente, poté essere liberata dal padre, suo tutore. Ed è grazie anche a quella sentenza storica – la numero 21748 del 2007 – che oggi abbiamo una legge sul fine vita.
Con quella sentenza la Cassazione stabilì che l’autodeterminazione terapeutica non può incontrare alcun limite…
“Quando ci siamo trovati a dovere giudicare questa vicenda eravamo di fronte alla mancanza assoluta di precedenti specifici nel nostro ordinamento. Ma il giudice non può sottrarsi alla domanda di giustizia perché il suo compito è di ricostruire il sistema, avvalendosi di tutti gli strumenti disponibili. In primo luogo la Costituzione che è sempre il faro, il punto di riferimento, poi le convenzioni, la carta di Oviedo, la carta dei diritti. Questa doveva essere la base di partenza. Ci siamo avvalsi, una delle prime volte all’epoca, di una comparazione con la giurisprudenza di altri paesi soprattutto i paesi di origine anglosassone dove la questione del living will era da tempo discussa. Sulla base di queste riflessioni abbiamo valorizzato il combinato disposto dagli articoli 13 (la libertà personale è inviolabile, ndr) e 32 della Costituzione sul diritto alla salute che è definito come diritto fondamentale ed che esalta nel suo ultimo comma la dignità della persona.
“…Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana“.
La dignità è il diritto dei diritti. Ecco da questi principi abbiamo desunto e valorizzato il principio di autodeterminazione della persona. Cioè nessuno può mettere mano al mio corpo con finalità terapeutiche se io non lo consento: legittimazione del medico a intervenire a curarmi esiste solo se io fornisco il consenso alle cure. Così come esiste il diritto alle cure, esiste il diritto a rifiutarle. Nel momento in cui si rifiuta un trattamento terapeutico si toglie al medico la possibilità di cura, in caso contrario si sarebbe in presenza di un illecito”
Avete riconosciuto il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, non di non farsi curare nelle fasi finali della propria vita, finanche si lasciarsi morire se questo va contro la propria dignità.
Esattamente. Anche se il rifiuto di cure può portare alla morte ciò non inficia la validità e la insuperabilità del rifiuto. Qui non si parla di eutanasia, sono concetti diversi. Il caso di Eluana Englaro era più complicato perché si trovava in uno stato di assoluta incapacità di esprimere le sue volontà. Che dovevano essere ricostruite sulla base del suo stile di vita, dei suoi valori di riferimento, del suo intendere la dignità della persona. Così come li aveva espressi nella sua giovane vita. Abbiamo affidato alla Corte d’appello di Milano in sede di rinvio – perché noi come giudici di Cassazione dovevamo stabilire un principio di diritto – di verificare se lo stato di malattia della ragazza fosse, sulla base della scienza e della pratica medica corrente, da ritenere assolutamente irreversibile e di verificare se la richiesta del padre tutore di interrompere il trattamento riflettesse – in base a elementi di prova chiari univoci e convincenti – la voce di Eluana.
Il padre che era anche tutore ed era affiancato anche da un curatore chiedeva di interrompere i trattamenti per rispettare il pensiero della figlia.
Il tutore non poteva sostituire la volontà propria a quella della ragazza, ma soltanto farsi voce della volontà presunta della ragazza stessa. Ecco noi abbiamo fissato un principio e rinviato alla corte d’appello di Milano perché solo un giudice di merito poteva farlo. La Corte d’appello (dopo una istruttoria in cui sono stati sentiti anche gli amici di Eluana, ndr) ha ritenuto che lo stato di malattia della ragazza fosse assolutamente irreversibile e che per come aveva vissuto ritenesse inaccettabile continuare a vivere in quelle condizioni. Quindi è stato autorizzato il distacco dell’idratazione e dell’alimentazione forzata.
Il papà di Eluana, che in una recente intervista ha ringraziato per quella sentenza, all’epoca disse che con la vostra decisione c’era stato “un sussulto di umanità”.
Noi eravamo ovviamente consapevoli dei risvolti umani, della drammaticità della vicenda. Però abbiamo deciso su un piano esclusivamente di diritto avendo una sensibilità forte verso i soggetti deboli. È stata una decisione di diritto. Anche se era una vicenda drammatica, così toccante da commuovere l’Italia intera e che ha suscitato uno sconquasso e avviato una deriva. Eravamo consapevoli dell’importanza e della delicatezza del tema. Essere chiamati, come Cassazione per la prima volta, a esprimere principi di diritto cosi importanti ha dato un senso alla nostra decisione che ha fatto anche giurisprudenza ed è stata un stimolo per il legislatore. Dopo 9 anni siamo arrivati alla legge sul fine vita nel 2017
Un anno dopo la vostra decisione Eluana era ancora alimentata artificialmente e c’è chi vi chiamava assassini.
Eravamo e siamo nel ricordo tuttora molto sereni, convinti di aver reso giustizia nelle massime espressioni. Quello avvenne dopo fu un momento veramente oscuro della politica. Ci fu il conflitto di attribuzione promosso dai due rami del Parlamento, tutti e due, che la corte costituzionale dichiarò inammissibile. Nel momento in cui Eluana veniva portata a Udine, si preparò un decreto legge per impedire di eseguire una sentenza definitiva (il provvedimento dei giudici di filano fu impugnato e la Cassazione dichiarò il ricorso inammissibile, ndr). Fu un sovvertimento totale dei principi di diritto. Il presidente Napolitano si rifiutò di firmare quel decreto legge. A quel punto il Senato si riunì in fretta e furia, in una corsa vertiginosa contro il tempo, per varare un disegno di legge che avesse un contenuto uguale a quello del decreto legge bocciato. Eluana morì e quel disegno di legge venne meno, ovviamente.
Ma nel frattempo anche il governo e la Regione intervennero…
Ci furono iniziative da parte del governo, provvedimenti del ministro della Salute che inviò un atto di indirizzo alle regioni diretto a vietare a tutte le strutture sanitarie pubbliche e private convenzionate l’interruzione dell’idratazione e dell’alimentazione forzata. Ci fu anche il rifiuto della Regione Lombardia di dare attuazione alla sentenza dopo un provvedimento del governatore della Lombardia (Formigoni, ndr) nelle proprie strutture tanto che Englaro dovette andare in Friuli. Fu presentato un ricorso a Strasburgo che fu rigettato perché inammissibile. Una serie di iniziative illogiche, irrazionali, estemporanee in una ossessiva rincorsa a impedire che una sentenza legittimamente emessa venisse eseguita. Questo fu veramente un momento di barbarie giuridica. Senza parlare degli attacchi personali nei miei confronti, lettere anonime, articoli…
Hai ricevuto minacce?
Ricordo benissimo una lettera anonima in cui si augurava alle mie figlie di subire la stessa sorte di Eluana. Su alcuni giornali erano riprodotte mie foto, una personalizzazione della sentenza. Che non è di Gabriella Luccioli, né di Alberto Giusti (il giudice estensore) è una sentenza della corte di Cassazione.
Dieci anni fa Eluana moriva. Cosa ha portato il suo caso nella vita di tutti noi?
Ho la sensazione di aver reso una buona sentenza, insieme al collegio, dopo uno studio attento del diritto costituzionale, del diritto internazionale, diritto dei trattati, della giurisprudenza. Sotto questo punto di vista il mio stato d’animo è stato ed è di assoluta serenità. Ritengo che siano scaturiti effetti positivi, finalmente abbiamo la legge 219 che è una buona legge. Anche se so che ci sono difficoltà applicative soprattutto per le Dat (le disposizioni anticipate di trattamento, ndr). Ora si parla di una legge che regoli il suicidio assistito a seguito del caso Cappato sui cui si espressa la Corte costituzionale.
Per riempire un vuoto normativo…
Vediamo se nel termine (29 settembre 2019, ndr) il Parlamento avrà la capacità, la forza, la volontà soprattutto di articolare una legge che regoli questa materia che è molto più avanti rispetto quella che abbiamo affrontato noi.
Ogni volta c’è un confine che va segnato e superato…
Credo che sia opportuno aspettare un momento. Indubbiamente l’articolo 580 (contestato a Marco Cappato, ndr) parifica l’aiuto e istigazione. La Consulta però la questione della parificazione è stata ritenuta addirittura subordinata rispetto alla necessità di dare una norma alla possibilità a chi vive nella condizione di totale inabilità e insopportabilità del suo stato di scegliere di non vivere più. C’è una grossissima apertura. La Consulta ha ritenuto di non poter rispondere subito ma di aspettare, in una dialettica feconda come dovrebbe sempre essere, il Parlamento. La sensibilità è maturata su questo fronte, siamo molto al di là delle reazioni che accompagnarono la nostra sentenza
Ha parlato di barbarie. Se fosse stata nella condizione di Eluana cosa avrebbe voluto?
È una risposta personale, non avrei accettato di vivere così. Ma la mia sensazione, il mio pensiero è di poco interesse, del tutto marginale. Abbiamo cercato di parlare in termini di diritto.