“Il personaggio più potente e terribile che ho finora interpretato”. D’altra parte Christian Bale non avrebbe ringraziato il diavolo in persona per averlo ispirato dentro all’ingombrante corpo di Dick Cheney. “Mi sentivo come un bulldozer indistruttibile ad ogni possibile pugno!”. Uno dei pochi veri divi hollywoodiani presenti alla 69ma Berlinale, il grande attore gallese in corsa all’Oscar da protagonista ha accompagnato la premiere tedesca di Vice – L’uomo nell’ombra insieme al regista Adam McKay. “Non so se interpreterei Trump un giorno, di certo mi ispirerei ai libri per Dummies! In ogni caso sono così fiero di aver partecipato a questo film così importante per la nostra storia contemporanea. Se vincerò l’Oscar sarò felice soprattutto per il bene che potrà portare a Vice, spero che già la candidatura sia servita alla massima diffusione”.
Notoriamente ingrassato di diversi chili per trasformarsi in Cheney (“ma se continuo a variare il mio peso così radicalmente finirò per morire presto…”) Christian Bale è stata la prima scelta di McKay come protagonista del film. “È nei suoi angoli più oscuri che abbiamo cercato Dick Cheney dopo averlo studiato in articoli e libri” dichiara il regista americano convinto che quel vicepresidente abbia “portato l’America e il mondo alle conseguenze che ora stiamo vivendo”. Se i riferimenti a Trump si sprecano (“non credo The Donald abbia visto il film… anche perché non credo resista al cinema oltre due ore!”, scherza McKay) le differenze fra le due personalità sono evidenti, specie a Bale che ha dovuto indagare quella di Cheney. “Il vicepresidente lavorava nell’ombra e nel silenzio, The Donald nella sovraesposizione. Ho capito, studiandolo, che Cheney senza la moglie Lynn non sarebbe mai diventato colui che abbiamo conosciuto. È un uomo di infinite contraddizioni, di quelli che sanno essere padri e mariti amorevoli ma efferati in politica: d’altra parte incarna l’eterno mistero di questo dualismo. A quanto pare non ha mai avuto rimorsi avendo sempre dichiarato che avrebbe rifatto tutto da capo, e a nulla gli è importato che le armi nucleari fossero inesistenti. Ha anche detto di non avere demoni notturni, ma vogliamo credergli? I mostri si presentano camuffati in forme diverse”.
Sul fronte italiano continua la piacevole cavalcata dei film “nostrani” alla conquista di stampa e pubblico internazionale. Oggi è il turno del bel documentario Normal di Adele Tulli. Nato come progetto di PhD della regista presso la britannica Roehampton University, il film si presenta come una acuta, coerente ed ironica riflessione “articolata per immagini” su quanto la nostra appartenenza di genere sia condizionata dalle convenzioni sociali dominanti. Il concetto di “normal” adottato dalla Tulli rimanda all’etimologia profonda del vocabolo, assunto prioritariamente nel suo significato in inglese, ovvero “sottoposto a norme” e non – come si sarebbe indotti a pensare –nella sua traduzione italiana di “normale”. Nell’indagine percorsa dal documentario tale concetto è – appunto – applicato all’appartenenza/ differenziazione di/in genere/i.
Squisitamente italiano per il panorama umano che ritrae dal nord al sud del Paese ma “aperto alle interpretazioni fuori confini perché ogni cultura si confronta ontologicamente con il proprio bagaglio normativo” sottolinea la Tulli, Normal mette in campo una sfilata di situazioni atte a mostrarci quanto fin dalla tenera infanzia (addirittura dalla gestazione..) la nostra esistenza sia indirizzata ad un’auto-percezione di genere: le bambine travolte da un universo di giocattoli in total pink fra bambole e utensili da baby casalinghe mentre i maschietti già a cavallo di mini-moto da corsa indotti a sviluppare una personalità da vincenti e dominanti. Niente di nuovo, si potrebbe obiettare, rispetto a volumi di letteratura di militanza femminista anni ’70 nonché all’imprescindibile reportage pasoliniano Comizi d’amore, e tuttavia la Tulli fa un passo in avanti poiché tenta (con successo) di aprire domande e non chiudere risposte in gabbie ideologiche.
“Lontano da intenzioni pedagogico-didattiche, il mio desiderio è di fornire una narrazione cinematografica che utilizzi simbologie, allegorie, suggestioni emotive, spunti orientati alla massima apertura interpretativa”. In tal senso anche le estremizzazioni rappresentate (i corsi di corteggiamento per uomini, il taglio della torta a forma di pene durante l’addio al nubilato che fa da controcampo al taglio del corpo femminile da parte dell’illusionista) vanno a significare la pienezza di una sublimazione che ci appartiene ed istintivamente riconosciamo: ecco, è proprio tale istantaneità a diventare l’oggetto del riflettere, perché è essa che viene indagata da Normal. Dotato di un finale esemplare qui da non rivelare, il documentario gode della coproduzione degli archivi AAMOD e Istituto Luce Cinecittà con la distribuzione prevista il prossimo aprile da parte di quest’ultimo.