Forse loro padre non aveva detto così. Non si riusciva a capire molto. Parlava in continuazione. Oppure muoveva solo la bocca, ed Emil aveva messo insieme in questo modo le parole che era riuscito ad afferrare (…) Emil a tratti guardava dalla finestra, dove il sole calava nel bosco. Emil lo capiva, suo padre era nel miglior posto dove potesse essere, stava andando dal suo primo figlio appena nato.
Chiedi a papà, di Jan Balabán (traduzione di Alessandro De Vito), terzo volume uscito per la collana NováVlna di Miraggi edizioni), è l’ultimo manoscritto su cui ha lavorato l’autore ceco prima di morire, prematuramente, nel 2010. Si tratta di un testo impeccabile, semplice e profondo sul destino umano: una storia familiare, raccontata attraverso monologhi, riflessioni interiori e dialoghi veloci, secchi (significativa la scelta di eliminare le virgolette nel discorso diretto).
Il medico Jan Nedoma muore e i figli e la madre devono far fronte, inaspettatamente, a scheletri che escono dall’armadio del padre, ad accuse di complicità con il vecchio apparato comunista e di corruzione. Nell’evolversi del lutto e del dolore l’intreccio traccia un percorso, fatto anche di nebulosi – o al contrario vividi – ricordi, senza mai diventare un nostalgico atto d’accusa al passato collettivo della nazione. Quello che interessa a Jan Balabán è sviscerare, dai suoi personaggi, le tecniche per catturare i pochi istanti d’amore di un’esistenza, per reclamare qualche gesto di dignità umana in un mondo penoso: Da un lato volevano fotterti, dall’altro ti odiavano perché li fottevi (…) Non facevano che mentirsi e sorvegliarsi a vicenda, finendo per sfogare lo stress in grandi bevute.
Un altro giorno di ferie. Aveva cominciato a bere già il secondo o il terzo giorno. Be’, forse non del tutto. Del secondo giorno parleremo dopo. Iniziamo col primo. Kowalski non sapeva che i cani morissero con gli occhi aperti. Krenz in seguito gli disse che era impossibile che morissero con gli occhi aperti, ma Kowalski lo aveva visto: Babsi aveva gli occhi aperti.
Il mago, di Magdalena Parys (traduzione di Alessandro Amenta; Mimesis Edizioni), libro vincitore del Premio Letterario dell’Unione europea, è un noir ruvido, ipnotico e completo, amalgamato con la storia recente di un vasto territorio: l’Europa divisa dalla cortina di ferro. L’autrice, nata a Danzica nel 1971 e cresciuta a Berlino Ovest, tesse un mosaico di colpi di scena, innescati dal ritrovamento, in un palazzo abbandonato a Berlino, del corpo di un impiegato agli Archivi della Stasi, e della scomparsa di un fotoreporter tedesco a Sofia. Il disilluso, stanco ma efficace, commissario Kowalski indaga per conto proprio e scopre segreti che collegano l’epoca del Muro ai giorni nostri.
Il mago è un romanzo dallo stile veloce, metropolitano, dalle tinte grigie, con una narrazione strutturata utilizzando un totale punto di vista ottico. L’emotività dei personaggi e le inaspettate sorprese che costellano l’intreccio sono fotografate, come istantanee; e il linguaggio, cinico e realista, non regala sconti: La guerra migliore è sempre quella più vecchia. La prima guerra, la precedente, quasi fosse meno crudele. Bella questa utopia, questa vendita all’asta militare. Forse la seconda guerra mondiale, che per lei e per suo padre era stata più crudele, le si era cancellata dalla memoria (…) e aveva pensato che a volte in questo mondo di merda anche le malattie valevano qualcosa.