Sono delle vere e proprie lettere minatorie quelle che hanno inguaiato i tre giovani fratelli Amato, figli di uno degli imputati più in vista del processo Aemilia, protagonista del sequestro a novembre di cinque funzionari in un ufficio postale della città. Per la procura, i tre fratelli sono i responsabili dell'escalation di violenza che ha colpito la città nelle ultime settimane: sabato sono stati fermati dai carabinieri. "Qui la società civile reagisce e le forze dello Stato hanno le competenze e le conoscenze per inchiodare i malviventi", dice il capo dell'ufficio inquirente emiliano
Per chiedere il pizzo a quattro pizzerie di Reggio Emilia avevano usato alcuni bigliettini: messaggi minacciosi e sgrammaticati scritti con una vecchia macchina da scrivere. Sono delle vere e proprie lettere minatorie quelle che hanno inguaiato i tre giovani fratelli Amato, figli di uno degli imputati più in vista del processo Aemilia, protagonista del sequestro a novembre di cinque funzionari in un ufficio postale della città. Per la procura di Reggio Emilia, i tre fratelli sono i responsabili dell’escalation di violenza che ha colpito la città nelle ultime settimane: sabato sono stati fermati dai carabinieri. Gli esercenti, infatti, non si sono piegati alle richieste estorsive. “Qui a Reggio il pizzo ancora non si può chiedere. Perché la società civile reagisce e le forze dello Stato hanno le competenze e le conoscenze per inchiodare i malviventi“, dice il procuratore di Reggio Emilia, Marco Mescolini.
“Vi chiediamo di essere gentili e di capire il problema: ogni mese dovete darci mille euro che per lei non sono niente al confronto di quanto guadagnate con la clientela”. Cominciava così la prima lettera inviata ai gestori della pizzeria La Perla, a Cadelbosco di Reggio Emilia, con la quale i tre fratelli Mario, Cosimo e Michele Amato chiedevano il pizzo. Poi le modalità di riscossione: “Il giorno 29 (gennaio) dopo la chiusura, mettete attaccato alla porta un nastro rosso e noi vi diremo il giorno del pagamento”. Infine la minaccia: “Se il nastro rosso non ci sarà, e soprattutto se sentiremo puzza di sbirri, sarà brutto. Mentre le persone stanno per mangiare, tutto a un tratto scoppia il finimondo. Ci pensi bene”.
Figli di Francesco Amato, condannato a 19 anni di carcere al processo Aemilia per appartenenza alla ‘ndrangheta, per gli investigatori i tre hanno battuto a macchina quella lettera con una Olivetti ET Personal 56, ritrovata dai carabinieri nei loro appartamenti alla periferia di Reggio, assieme al blocco di fogli dal quale sarebbero stati staccati quelli utilizzati per le minacce. Sempre secondo gli inquirenti, appartengono agli Amato l’auto e la moto inquadrate dalle telecamere e utilizzate per consegnare le richieste e poi per sparare contro la vetrata della pizzeria. Sulla base di questi elementi di prova, i tre sono stati fermati ed ora si trovano in carcere in attesa della convalida del giudice. Le immagini raccolte dai carabinieri mostrano uno dei fratelli completamente vestito di bianco e con il volto nascosto che si avvicina all’entrata della pizzeria. Il tono del primo pizzino è quasi gentile e rispettoso se confrontato al secondo, che viene recapitato ai proprietari della pizzeria colpevoli di non aver messo il nastro rosso segno di accondiscendenza: “Essendo che le nostre richieste sono cadute nel vuoto, io stasera ti farò dei danni, perché hai sottovalutato il problema e se ancora continui a fare il testardo ti metterò a fuoco o chi lo sa, se mi fai girare bene i coglioni ti gambizzo: tu che dici?” Poi la minaccia finale in cui si rivendica la sparatoria: “Intanto aggiustati la vetrata che costerà molto, faccia di merda”.
Sono questi i “cordiali saluti” (frase con cui termina la lettera) che i membri della famiglia Amato hanno inviato tra fine gennaio e inizio febbraio a quattro pizzerie molto frequentate della provincia, seguendo una lineare e determinatissima strategia estorsiva. Ma alle loro richieste estorsive i gestori dei locali non si sono piegati: hanno denunciato facendo finire in manette i tre fratelli.