Sanremo non è rappresentativo di niente. Sanremo non è lo spaccato dell’Italia, non è la sua cartina di tornasole. Sanremo è Sanremo. Allora perché ne parliamo? Perché ci esprimiamo su Sanremo se sono solo canzonette? Perché pur non rappresentando alcunché, Sanremo è ogni volta il pretesto per affrontare discussioni politico-culturali sulla società italiana. Quest’anno non poteva mancare, dunque, la discussione su élite e popolo, su voto popolari e giurie, su gente versus radical chic. Nonché su migranti, altre culture, integrazione.

Sul primo punto, naturalmente, non ci stupisce che ci sia chi dica che occorre dare più peso al “popolo”, che quello appena trascorso non è stato “il festival scelto dal popolo” (Ultimo). In tempi di sovranismo, è chiaro che ci sia chi ritiene di trasferire tout court i temi politici alla lettura del festival della canzone italiana, come se peraltro i votanti via telefono fossero direttamente equiparabili agli elettori, laddove la democrazia funziona sul principio “una testa un voto”, e non “massimo cinque sms”. È sintomatica anche l’invocazione al popolo dopo l’esito del voto, quando mi pare evidente che il regolamento fosse noto già prima dello svolgimento della competizione.

Ma, ripeto, non contano le polemiche tra cantanti, conta come la politica e la società italiane colgono l’occasione per parlare del festival stesso e per traslato della società e della cultura che vorrebbero. Non è rilevante che siano i cantanti a dire che le giurie hanno tradito il popolo, è rilevante che la politica usi l’argomento per affermare il mantra “élite” (radical chic) contro “gente”. Ma questi temi sono già stati ampiamente dissodati, e del resto sono anche trattati in modo piuttosto “scoperto” dai sostenitori del “sovranismo popolare”.

È il secondo punto quello che suggerisce riflessioni più interessanti. Mi riferisco al dibattito su Mahmood, cantante di padre egiziano e madre sarda. Sia chiaro, Mahmood è italiano al 100%, e non tanto perché di madre italiana, perché è nato in Italia, perché è di “cultura” anche italiana. Mahmood è italiano perché chi è qui è di qui. Qualcuno si spinge a dire che anche chi vuol venire qui è di qui. In ogni caso, il dibattito su quanto Mahmood rappresenti l’Italia è stantio quanto quello sui canoni di bellezza italica quando Denny Mendez vinse Miss Italia. L’Italia è questa, sogni di purezza e di bianchezza sono sciocchezze antistoriche. L’Italia è anche la musica di Mahmood.

Tuttavia, che Mahmood sia italo-egiziano ce l’ha detto lui. Quel che voglio dire è che il dibattito sulle sue origini e sulla sua cultura deriva anche da ciò che egli stesso ci ha voluto dire di sé. Da più parti si sente dire infatti che “etichettare” Mahmood come italo-egiziano sarebbe una sorta di razzismo in reverse. Facciamo notare, invece, che qui entra in gioco l’auto-etnografia, ovvero un modo di descriversi culturalmente. E l’auto-etnografia non di rado è incline a sfruttare, magari rovesciandoli, gli stessi cliché di certa etnografia.

È lo stesso Mahmood che canta una canzone con dei versi in arabo raccontando una storia familiare di disagio, con un padre che beve durante il Ramadan, è così via. Ed è sempre Mahmood che amplifica un certo modo di pronunciare alcune parole mentre canta che quando parla invece non ha. Insomma, parlare delle origini di Mahmood non è solo il risultato di un’Italia retriva e chiusa (c’è anche quello, intendiamoci). Se Mahmood avesse presentato un pezzo punk parlando di altro, forse nessuno si sarebbe accorto della sua biografia. E invece la trap con storie di seconde generazioni di immigrati è un genere vero e proprio (si veda il celebre Ghali).

Iscriversi dentro un canone, giocare con ciò che si è, farne una bandiera ma allo stesso tempo decostruendola, o parodiandola, o ibridandola. È anche il gioco di Mahmood, è il gioco di chi si rappresenta auto-etnograficamente. Ed è un gioco che a volte rischia di intrappolarti nella tua stessa auto-rappresentazione, un’auto-rappresentazione che gioca coi cliché ma che così facendo rischia di perpetuarli. È comunque un gioco culturale che ha senso, che è forse persino inevitabile, perché quando scriviamo di noi stessi lo facciamo non solo per presentarci agli altri, ma anche per sapere chi siamo. Un gioco che non sconvolge nessuno tranne coloro che non ci sanno giocare, gli imprenditori dell’identità e della paura dell’altro. Che a volte afferrano l’auto-etnografia dell’altro e gliela ritorcono contro, storpiandola.

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