La paranza dei bambini è un’emergenza mentre le mafie hanno volti sempre più giovani. Una nuova frontiera della criminalità organizzata quella del reclutamento tra minori e adolescenti, diventata una “vera e propria deriva socio–criminale“. Lo scrive la Direzione investigativa antimafia nella Relazione sull’attività del primo semestre 2018. Un dossier di più di 500 pagine in cui si evidenzia come ancora oggi le mafie traggano traggano la “linfa vitale” necessaria a rigenerarsi “in soggetti sempre più giovani, impiegati in professioni poco qualificate o senza occupazione”nella fascia più giovane, quella tra i 18 e i 40 anni”. Sull’altro fronte, invece, il “rapido diffondersi di episodi riprovevoli e violenti commessi dalle cosiddette baby gang, espressione di una vera e propria deriva socio–criminale”.

“Campania, bambini usati per attività di spaccio” – Gli investigatori spiegano che le azioni delle baby gang “spesso connotate da un’ingiustificata ferocia, sfociano in episodi di bullismo metropolitano e atti vandalici, consumati anche in danno di istituti scolastici ed edifici pubblici”. Come è noto, scrivono gli analisti della Dia, “il fenomeno delle baby gang riguarda diverse zone della città, dalla periferia Nord, ai quartieri vicini alla zona Vesuviana (Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio), all’area occidentale di Bagnoli, fino ad arrivare alle zone più centrali”. Da chi sono composte le baby gang? “Spesso si tratta di gruppi composti da ragazzi considerati a rischio di devianza per problematiche familiari o perché cresciuti in contesti che non offrono momenti di aggregazione sociale: fattori che concorrono ad un percorso di arruolamento nelle fila delle consorterie criminali. I minori, infatti, rappresentano un ‘esercito’ di riserva per la criminalità, da impiegare, in particolare, nelle attività di spaccio delle sostanze stupefacenti ove, come più volte emerso dalle attività investigative, partecipano persino i bambini“.

“Sempre più mafiosi hanno tra 18 e 40 anni” – Questo per quanto riguarda il fronte campano. Su un versante più generale, invece, la Dia sottolinea come le mafie, nonostante “la forte azione repressiva dello Stato”, continuino ad avere una “capacità attrattiva” sulle giovani generazioni, non solo nel caso di figli di boss o di ragazzi provenienti da famiglie mafiose ma anche e soprattutto quando queste fanno parte di un bacino molto più grande di “reclutamento generale” dal quale “attingere manovalanza criminale“. Un bacino che continua ad essere alimentato dalle difficili condizioni sociali del sud Italia: il reclutamento, dice infatti la Dia, “non appare certamente disgiunto da una crisi sociale diffusa che non sembra offrire ai giovani valide alternative per una emancipazione dalla cultura mafiosa”. In sostanza, le mafie riducono “sensibilmente l’iniziativa imprenditoriale lecita, approfittano dello stato di bisogno di molti giovani e speculano sulla manodopera locale, dando l’effimera sensazione di distribuire un salario (sempre minimo per generare dipendenza e senza garantire i contributi previdenziali e quindi un futuro) ai giovani impiegati al suo servizio perché privi di alternative”. Concetti che vengono esplicitati meglio con alcuni numeri: “Negli ultimi cinque anni – si legge nella relazione –  non solo si sono registrati casi di ‘mafiosi‘ con un’età tra i 14 e i 18 anni, ma gli appartenenti alle cosche tra i 18 e i 40 anni hanno raggiunto numeri quasi uguali a quelli della fascia tra i 40 e i 65 anni e, in un caso, lo hanno anche superato (nel 2015 i denunciati e gli arrestati per 416 bis sono stati 5.437 di cui 2.792 tra i 18 e i 40 anni e 2.654 tra i 45 e i 60).

“Strategie criminali sempre più moderne” – Sarà anche per questo motivo che gli investigatori registrano anche una “modernizzazione” delle strategie criminali delle cosche, e “anche un sensibile abbassamento dell’età di iniziazione mafiosa”. E portano alla luce anche un’altra serie di elementi su cui è necessario riflettere: la volontà delle nuove generazioni di affrancarsi dai vecchi boss, l’uso indiscriminato della violenza, l’ambizione di avere il giusto riconoscimento e di fare ‘carrierà all’interno delle organizzazioni. “Una trasformazione della cultura mafiosa – scrive la Dia – che investe anche il linguaggio, al passo con i tempi. Non tanto rispetto ai contenuti delle comunicazioni, sempre criptiche, imperative e cariche di violenza, quanto piuttosto per gli strumenti social utilizzati, che consentono di aggregare velocemente gli affiliati al sodalizio e, allo stesso tempo, di rendere più difficoltosa l’intercettazione dei messaggi”.

“Donne hanno ruolo di rilievo nel clan” – Parallelamente al ringiovanimento delle cosche si ha una sempre maggiore presenza di parenti all’interno della gerarchia di comando conferma la centralità della famiglia, quale strumento di coesione. Non di rado le alleanze sono state rafforzate da matrimoni tra giovani di gruppi diversi, con le donne che assumono, sempre più spesso, ruoli di rilievo nella gerarchia dei clan, soprattutto in assenza dei mariti o dei figli detenuti. Un fenomeno che gli investigatori mettono in risalto nel capitolo dedicato alla camorra. Si è assistito, in generale, rileva la Dia, alla scomparsa dei capi carismatici, alcuni detenuti e altri costretti da tempo alla latitanza, il cui ruolo è stato assunto da familiari o elementi di secondo piano, che non sempre hanno mostrato pari capacità nella guida dei sodalizi.

“In Cosa nostra alcuni mandamenti contrari a nuova Cupola” – L’assenza di capi carismatici ha anche portato a cambiamenti epocali dentro Cosa nostra. La morte di Totò Riina ha portato alcuni boss a convocare nuovamente la Cupola della mafia siciliana. Solo che alcuni mandamenti erano contrari alla ricostituzione di un vertice centrale dell’organizzazione. Secondo il rapporto della Dia “la ricostituzione di questa struttura, dopo molti anni di inattività, non sembrerebbe auspicata da tutte le rappresentanze dei mandamenti, specie di quelli più attivi nella gestione delle attività economiche anche fuori dal territorio di competenza che, abituati ad agire quasi in autonomia, potrebbero soffrire la restrizione delle regole imposte dalla Commissione”. I risultati delle indagini investigative evidenziano uno “scenario ancora in evoluzione, proprio in relazione alla ricostituzione della ‘Commissione provinciale”. Come dire: a Palermo i boss potrebbero anche ricominciare a combattersi tra loro.

“Struttura reticolare infiltra luigi del potere economico” – Corposo, come sempre, il capitolo dedicato dagli analisti al capitolo finanziario di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra. Con particolare attenzione agli affari delle cosche a Roma. “L’operatività di Cosa nostra nella Capitale si fondasu un’azione tesa all’infiltrazione dell’economia e della finanza e al condizionamento della pubblica amministrazione (funzionale soprattutto al controllo dei pubblici appalti), grazie ad una forte capacità relazionale”. Secondo la Dia “la mafia siciliana mira ad occupare i mercati legali attraverso logiche manageriali volte a massimizzare i profitti e a ridurre al minimo i rischi, ‘intossicando‘ i circuiti legali con immissioni di ‘denaro sporco’ e alla ricerca di “collaborazioni esterne per instaurare rapporti di scambio con ambienti politico-istituzionali”. A questo proposito la relazione parla “dell’esistenza di una struttura di natura reticolare che tende ad infiltrare i luoghi del potere decisionale ed economico, e nel cui ambito i singoli sodalizi ora stringono alleanze funzionali all’ottenimento di obiettivi puntuali, ora possono, ma più di rado, entrare in conflitto. L’atteggiamento violento, infatti, permane come una forma di ‘capitale quiescente‘, pronto all’occorrenza ad esplodere se vengono minacciati gli interessi delle consorterie”

“‘Ndrangheta ha supremazia nel traffico di droga” – Ma nella Capitale, ovviamente, emerge soprattutto “uno spaccato importante della capacità della ‘ndrangheta di infiltrarsi, dissimulando le proprie tracce, nel territorio romano”. Nel capitolo sulla criminalità organizzata romana si tratteggia “proprio questa sua capacità mimetica” che “rende difficile tracciare una mappatura esatta della presenza sul territorio della Capitale”. Diversi sono i riferimenti a vari esponenti di cosche crotonesi, reggine e cosentine. Queste ultime – che hanno referenti delle ‘ndrine di San Luca Pelle, Pizzata e Strangio e dei Muto di Cetraro – sarebbero “specializzate nell’usura, nelle estorsioni, nelle rapine, nel traffico di stupefacenti ed armi, avvalendosi anche del supporto di pregiudicati romani”. La ‘ndrangheta, poi, “”mantiene intatta la propria supremazia nel traffico degli stupefacenti, non solo a livello nazionale, interloquendo direttamente con i più agguerriti cartelli della droga del mondo”. Le evidenze investigative, rileva la Dia, “continuano a dar conto della sussistenza dei riti di affiliazione, che non costituiscono mai né un retaggio del passato né una nota di colore, in quanto tuttora necessari per definire appartenenza e gerarchie interne, per rafforzare il senso di identità e per dare ‘riconoscibilità‘ all’esterno, anche in contesti extraregionali e persino internazionali“.  Sul fronte imprenditoriale la ‘ndrangheta appare proiettata “verso ambiti delinquenziali sempre più raffinati“, che contaminano l’economia legale con il monopolio di interi settori, da quello edilizio, a quello immobiliare o delle concessioni dei giochi.  Le infiltrazioni delle ‘ndrine sono consistenti nel Nord Italia dove viene replicato il modello organizzativo, come all’estero, dove sono presenti proiezioni operative in Germania, Svizzera, Spagna, Francia, Olanda e nell’Est Europa, nonché nei continenti americano (specie in Canada) ed australiano. Si tratta, nota la relazione, si una “strategia espansionistica finalizzata innanzitutto a riciclare e reimpiegare i capitali illeciti, utilizzando tecniche di occultamento sempre più sofisticate, frutto principalmente del traffico internazionale di stupefacenti e delle estorsioni”.
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