Diplomazie parallele – Una sorta di diplomazia parallela, giocata sul campo delle relazioni personali e degli affari, peraltro non chiarissimi, anche se il diretto interessato smentisce di avere mai operato per conto dei governi italiani e di aziende pubbliche e sostiene di aver rotto da ben 36 anni ogni legame con quella parte della famiglia pesantemente coinvolta in vicende di ’ndrangheta: il cugino Giuseppe è in carcere reo confesso per la strage dei carabinieri a Scilla. Il 18 dicembre 1994 gli appuntati scelti Vincenzo Garofalo e Antonino Fava furono massacrati in autostrada mentre stavano per controllare un’auto sospetta. Recenti indagini collocano l’episodio in un (momentaneo) accordo fra la mafia calabrese e Cosa Nostra, allora impegnata nell’assalto frontale allo Stato. Giuseppe Calabrò è detenuto anche per l’omicidio di un vigile urbano che aveva osato multare un boss. I resti dell’altro cugino, Francesco, sono invece stati ritrovati anni dopo la scomparsa in una Smart gialla affondata nel porto di Reggio Calabria.

Sia come sia, Giovanni Calabrò, ribattezzato il “Marchese del Grillo” dalla Procura di Busto Arsizio che ne ha disposto l’arresto per la prima volta nel 2006, era già stato attenzionato dalle forze dell’ordine fin dagli anni Novanta, come testimonia una segnalazione per estorsione fatta dalla Guardia di finanza nel 1998. Neanche la vicenda Algol, per la quale è stato condannato in via definitiva nell’ottobre 2017 a sei anni e due mesi, ha minimamente intaccato la sua reputazione di magnate della finanza e non gli ha precluso l’accesso ad ambienti imprenditoriali e politici in cui fino a non molto tempo fa risultava ben introdotto. Nel 2010 una fonte confidenziale della Polizia riferisce che Calabrò avrebbe avuto «contatti lavorativi non meglio precisati con alcuni importanti esponenti politici dell’attuale Governo con i quali è in affari per conto di una società denominata Eni» e in quella stessa annotazione gli agenti rilevano come sia stato un assiduo frequentatore del giro di escort dei vip all’Hotel Boscolo di Milano, che annoverava tra le protagoniste l’allora minorenne Karima El Mahroug detta Ruby. Quella di Calabrò che lavora per conto di Eni potrebbe tranquillamente essere una millanteria, come sostiene l’interessato, ma nel “mondo di mezzo” verità e bugie s’intrecciano in una matassa quasi inestricabile e il patrimonio di conoscenze e rapporti personali viene sfruttato all’osso per guadagnare credibilità, proporre affari e restare sempre in pista.

A voler essere maliziosi si potrebbe anche interpretare così il caso Genova: Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria nonché consigliere politico di Berlusconi, declassa oggi a semplice “conoscente” l’amico Calabrò, ma nel capoluogo ligure si ricordano bene dei finanziamenti in campagna elettorale, delle uscite pubbliche, delle cene in cui Toti, Calabrò, il patron del Genoa Enrico Preziosi e l’imprenditore Aldo Spinelli parlavano di affari e di proprietà delle squadre di calcio. Era il 2015 e Calabrò, da papabile acquirente del Genoa, della Giochi Preziosi e forse anche della Switch, società poi finita al centro di una bufera giudiziaria per smaltimento illecito di rifiuti e truffa, sparì dalla Liguria senza lasciare tracce.

In quello stesso periodo – 2013-2015 – il nostro è anche impegnatissimo con un imprenditore vicentino. Obiettivo: creare una montagna di denaro con il nichel. Non si tratta però del metallo quotato sui mercati internazionali e utilizzato anche come bene rifugio sotto forma di lingotti o barre, ma di un semilavorato più sottile di un capello che trova esclusivo impiego industriale: non è un bene d’investimento, non è quotato e non ha praticamente mercato, specie per partite di una certa entità. 

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Nichel, l’ascesa del “marchese” Calabrò tra politica, bancarotta, grande finanza. E un cugino killer

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