Politica

Autonomia, finalmente una battuta d’arresto. Ma è presto per cantare vittoria

È troppo presto per cantare vittoria, ma intanto sul regionalismo differenziato quello che sembrava ineluttabile – un destino scontato, un gioco di governo che si sarebbe dovuto giocare solo in un modo – si è rivelato tutt’altro. Dopo il Consiglio dei ministri di ieri sera, ciò che prevale a livello politico è quello che in clinica si definirebbe “desistenza terapeutica”, cioè la sospensione di un qualche trattamento perché considerato arbitrario, dannoso e inutile.

Quali vantaggi deriverebbero da tale desistenza? Alcuni – tutti di carattere politico – saranno davvero decisivi per le sorti finali di tutta la questione:

1. Il regionalismo differenziato subisce di fatto una battuta di arresto, dal momento che con tutta probabilità non si deciderà niente di concreto prima delle Elezioni europee di maggio. Guadagnare tempo in questi casi è un vantaggio per la discussione, anche nel senso di avere la possibilità di allargarla coinvolgendo coloro che finora ne sono rimasti esclusi. Discutere di più significa conoscere di più e quindi sbagliare di meno e fare le cose giuste.

2. Il problema passa di mano, nel senso che diventa un meta-problema, dalle ragioni tecniche dei ministeri (problema delle competenze) si passa al “vertice politico” proposto da Matteo Salvini, cioè il regionalismo differenziato si riprende per intero quello che aveva perduto per strada: vale a dire la sua irriducibile complessità sociale, etica, politica e perfino costituzionale. Esso non è un problema riducibile a competenze tecniche.

3. Viene finalmente fuori il problema dell’anticostituzionalità in due sensi:
a. il regionalismo differenziato è contro la Costituzione perché mettere i fabbisogni delle persone in relazione alle capacità fiscali delle Regioni è anticostituzionale;
b. espropriare il Parlamento di una decisione che riguarda comunque una riforma costituzionale è anticostituzionale.

4. Il Parlamento, com’è giusto che sia, si riprende per intero le proprie prerogative. Non può essere che su questioni tanto fondamentali – che interessano gli assetti statuali, i diritti delle persone, il valore dell’eguaglianza, l’unità del Paese – siano solo tre regioni tracotanti a decidere.

Personalmente, sulla questione su questo blog ho scritto molto, ma solo perché ne avvertivo la gravità e l’importanza, per cui non posso che compiacermi di quanto deciso ieri sera dal Consiglio dei ministri, cioè dell’entrata in campo della ragionevolezza, del buon senso e della cautela, cioè di quella politica che Platone avrebbe definito “scienza regia”. Sono compiaciuto soprattutto di tre cose:

1. della posizione politica unitaria e compatta del M5S, che anziché subire l’iniziativa eversiva di tre Regioni senza scrupoli concordata peraltro con il precedente governo, ha messo in campo un report sui costi-benefici dell’autonomia regionale, con il quale ha tenuto banco a un leghismo di altri tempi. Oggi senza questo fronte il regionalismo differenziato sarebbe passato senza se e senza ma;

2. della posizione del ministro Giulia Grillo finalmente chiara, alla quale proprio su questo blog avevo contestato le sue deboli posizioni politiche e che, ora, vivaddio, è passata dallo spirito collaborativo verso il regionalismo differenziato a uno spirito critico, difendendo senza esitazione le ragioni della sanità pubblica e dell’universalismo;

3. dalla posizione saggia di Salvini, colui che più di ogni altro è in difficoltà politica, perché si trova in mezzo a una secessione mascherata di vecchio stampo leghista e la necessità di dare alla Lega il respiro di un partito nazionale.

In un dossier dei gruppi di Camera e Senato, i pentastellati hanno assicurato che non ci saranno “cittadini di serie A e di serie B”. Questa posizione vale come la necessità di trovare (impresa non facile) le soluzioni di compossibilità, cioè l’eliminazione di tutte le contraddizioni che esistono tra il regionalismo differenziato e i valori costituzionali, per fare in modo che l’autonomia sia davvero tale, cioè un valore che non lede i diritti delle persone, il valore dell’eguaglianza e della solidarietà e dell’unità del Paese.

L’autonomia in sanità, in medicina, è un valore, ma solo se essa vale come perfezionamento di valori universali. Giammai come la loro negazione. Senza una corretta autonomia non è possibile ad esempio fare equità nel Paese o per un medico interpretare la singolarità di un malato, o per chiunque governare gradi alti di complessità o definire adeguate soluzioni organizzative. Ma in questi casi l’autonomia in nessun modo può essere fraintesa – come propongono il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna – in autarchia, in laissez faire, in arbitrio, in sopraffazione, in egoismo.

Quando queste tre civilissime regioni propongono di curare i cittadini non in base ai loro diritti ma in base al gettito fiscale prodotto nelle loro regioni, ripropongono le ragioni oscurantiste del ritorno alla barbarie; in luogo della solidarietà con i più deboli, l’egoismo e la protervia dei più forti; ciò che una società per accrescere il suo grado di civiltà ha dovuto superare.

L’ultimo pensiero va al Pd, all’Emilia Romagna e alle regioni rosse che si sono per conformismo accodate: ed è un pensiero di pena e di compassione. Nel film Master & Commander succede che durante la tempesta, un pennone con un marinaio cadono in mare rimanendo attaccati alla nave, impigliati nelle funi. Il rischio è che tutta la nave, quindi l’intero equipaggio, sia trascinata a fondo. La decisione del capitano è tagliare le funi e liberarsi del pennone, quindi sacrificare un marinaio per il bene di tutti.

La sinistra, rispetto alla sanità, se vuole tornare a essere sinistra deve tagliare le funi con il pensiero contro-riformatore che è nato in questi anni al suo interno. Nello stesso tempo, deve chiedersi perché una regione come l’Emilia Romagna è arrivata a sostenere politiche eversive come il regionalismo differenziato. Probabilmente scoprirà che tutto nasce perché la sinistra da anni ha smesso di essere sinistra rinunciando al dovere di produrre un vero pensiero riformatore, quindi rinunciando all’idea di poter cambiare veramente il mondo.