Società

Cara Chiesa, quanto ci costi!

Pochi italiani sanno esattamente quanti soldi vengono regalati dallo Stato alla Chiesa Cattolica grazie al meccanismo dell’otto per mille (abbreviato in 8xmille). Si tratta della quota di Irpef che lo Stato italiano distribuisce, in base alle scelte effettuate nelle dichiarazioni dei redditi, fra se stesso e le confessioni religiose che hanno stipulato un’intesa.

L’8xmille è stato introdotto dall’articolo 47 della legge n. 222 il 20 maggio 1985, durante il primo governo Craxi; lo stesso che – il 18 febbraio del 1984 – aveva firmato l’accordo noto come “Craxi-Casaroli” (quest’ultimo, all’epoca, segretario di Stato Vaticano). Un accordo che aveva abolito la congrua (lo stipendio pagato dallo Stato ai preti), sostituendola con  l’autofinanziamento da parte dei fedeli grazie al meccanismo dell’8xmille.

Per la legge del 1985 i contribuenti non sono tenuti ad esercitare obbligatoriamente l’opzione per la destinazione dell’8xmille; ma anche l’8xmille del gettito fiscale di chi non effettua tale scelta viene ripartito tra i soggetti beneficiari, in proporzione alle scelte espresse.

Il  beneficio quantitativamente spropositato che viene alla Chiesa da questa legge ha due ragioni principali. La prima è che il potere politico (con tutte le maggioranze e tutti i governi che si sono succeduti dal 1985 ad oggi) non ha mai fatto nulla per far sapere ai cittadini che possono destinare anche allo Stato il loro 8xmille e soprattutto per quali finalità benefiche o sociali verrebbero utilizzati i loro contributi. Il risultato di questo silenzio è che mentre nel 1992 allo Stato fu destinato il 22% degli 8xmille, questa percentuale è scesa al 6% nel 2018: un dato molto eloquente!

La mia opinione è che gran parte dei contribuenti (oltre il 50%) non opera una scelta perché non vuole finanziare alcuna confessione religiosa (la “secolarizzazione” della società italiana è fenomeno ormai ben noto) ma al tempo stesso non ha alcuna propensione a finanziare uno Stato in cui non ha fiducia. E soprattutto non sa che comunque il suo 8xmille, benché da lui “non destinato”,  finirà nelle casse di qualche Chiesa, e soprattutto della Chiesa Cattolica, cui la stragrande maggioranza dei contribuenti destina la propria quota.

Dunque, una vera e propria “trappola” tesa dalla legge del 1985 alla massa dei contribuenti, per lo più disinformatissimi in materia tributaria.

Due dati a sostegno di queste affermazioni:
– mediamente, il 58% dei contribuenti non destina il proprio 8xmille;
– del totale degli  8xmille il 34% è destinato alla Conferenza Episcopale Italiana (CEI) ma diviene l’81% grazie al meccanismo di assegnazione del non destinato (tradotto in termini di euro, 400 milioni diventano un miliardo).

Per capire l’enormità di questa cifra, basti pensare che il tanto deplorato finanziamento pubblico ai partiti raggiunse il suo picco nell’anno in cui giunse a 250 milioni di euro.

Infine, sottolineo il fatto che mentre la Chiesa Valdese (per fare un solo esempio particolarmente virtuoso) destina tutto quanto le proviene dall’8xmille a opere di bene, secondo l’Unione degli Atei e degli Agnostici razionalisti, la Cei impegna il 36% per il sostentamento del clero, il 44% alle cosiddette “esigenze di culto” (in gran parte, costruzione di nuove chiese e gestione del proprio patrimonio), mentre solo l’8,6% del totale va ad opere di carità e ad aiuti al Terzo Mondo.

Se i proventi dell’8xmille rappresentano la quota principale di ciò che lo Stato “regala” alla Chiesa Cattolica, non vanno dimenticate le altre numerose forme di finanziamento diretto Stato-Chiesa. Fra i più noti, i finanziamenti alle scuole private confessionali (in violazione dell’articolo 38 della Costituzione: “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”) e quelli per i Giubilei (circa 2 miliardi di euro per quello del 2000).

Ma ci sono altri costi, difficili da quantificare e per lo più ignoti all’opinione pubblica, come quelli legati al Fondo Edifici di Culto (FEC), nato a seguito delle leggi che nella seconda metà dell’Ottocento soppressero le proprietà ecclesiastiche, trasferendole allo Stato italiano, che si trova così ad amministrare 360 chiese, fra cui alcune fra le più celebri e fastose, da San Giovanni e Santa Maria del Popolo a Roma, Santa Chiara e San Domenico Maggiore a Napoli e molte altre in tutta Italia. Comprese tutte le opere d’arte presenti nelle chiese. La missione affidata al Fondo è quella di assicurare la tutela, la valorizzazione, la conservazione e il restauro dei beni, poi utilizzati dalla Chiesa Cattolica per  le proprie esigenze di culto. Con un costo per lo Stato di cui non è facile conoscere l’entità. Ma che segnala comunque un’altra anomalia per un Stato che dovrebbe essere laico.