“Mancanza di prove certe“. E’ la motivazione con la quale un tribunale pachistano ha assolto il padre, lo zio e il fratello di Sana Cheema, la 25enne italo-pachistana portata via da Brescia nell’aprile del 2018 per costringerla a nozze combinate nel Paese d’origine della famiglia e poi uccisa perché le aveva rifiutate. I familiari avevano inizialmente detto che Sana era morta per cause naturali, ma l’autopsia rivelò che era stata strangolata.
Dopo tre mesi di processo, il giudice Amir Mukhtar Gondal, del tribunale di Gujrat, nel Punjab, ha ordinato il rilascio del padre di Sana, Ghulam Mustafa Cheema, dello zio Mazhar Cheema e del fratello Adnan per mancanza di prove che scongiurino “ogni ragionevole dubbio”. Durante le indagini, i tre familiari confessarono di aver ucciso Sana perché aveva “disonorato” la famiglia. Confessione poi ritrattata.
La 25enne di origini pakistane era cresciuta nel capoluogo dove si era diplomata ed era cittadina italiana da settembre 2017. Era innamorata di un ragazzo che vive nella provincia
bresciana, come lei cittadino italiano di seconda generazione. Il 19 aprile sarebbe dovuta tornare a Brescia, dove aveva gestito un’agenzia per pratiche automobilistiche, ma era morta poche ore prima di imbarcarsi sull’aereo.
Il 10 maggio 2018, all’indomani dell’autopsia che aveva certificato che la morte era avvenuta a causa della rottura dell’osso del collo, suo padre aveva confessato: “Con me c’era mio figlio“, aveva detto Mustafa Ghulam Cheema, pure lui cittadino italiano, nel corso della confessione, arrivata dopo aver sostenuto che la ragazza fosse morta per un attacco cardiaco. Il giorno successivo l’uomo aveva smentito la confessione: “Non e’ vero che abbiamo confessato – aveva detto in un’intervista a La Repubblica – Se il referto dei medici legali dice che Sana aveva l’osso del collo rotto è perché deve aver battuto la testa contro il bordo del letto o il divano”.