“Sgombereremo la baraccopoli di San Ferdinando. L’avevamo promesso e lo faremo, illegalità e degrado provocano tragedie come quella di poche ore fa”. E’ mattina quando il ministro interviene su Facebook. Dalle macerie che il rogo scoppiato nella notte ha lasciato tra le lamiere si leva ancora fumo, poche ore prima Al Ba Moussa è morto carbonizzato nella baracca in cui viveva. E’ il 16 febbraio 2019, ma le promesse sono le stesse che Matteo Salvini ha pronunciato a marzo appena eletto in Parlamento, e poi a giugno, luglio e agosto del 2018 da capo del Viminale. Sempre le stesse da un anno dopo ogni incendio, ogni morto contato in uno degli inferni in cui migliaia di braccianti stranieri vivono in prossimità dei campi, nel sud Italia.
Il contratto di governo non c’entra. Castelnuovo di Porto, Baobab ed ex Penicillina a Roma, tre sgomberi nella capitale con tanto di gran cassa dei media nazionali soltanto negli ultimi quattro mesi: quando il ministro ha voluto è intervenuto, dimostrando di essere in materia il dominus assoluto, di non aver bisogno del placet dell’alleato per muovere ruspe e blindati. Per San Ferdinando è stato diverso: lembo dimenticato della Piana di Gioia Tauro, estrema periferia dello Stivale, lì i riflettori dei media e l’attenzione dei governanti si accendono solo in occasioni speciali: tragedie e appuntamenti elettorali.
Rosarno “è uno dei simboli delle contraddizioni di questo Paese”, aveva detto il segretario della Lega il 17 marzo 2018, ancora semplice senatore, nella cittadina calabrese durante il bagno di folla organizzato per ringraziare i calabresi di averlo mandato in Parlamento due settimane prima. “Rosarno è il luogo dove noi vogliamo costruire legalità“, proseguiva, perché “in un Paese civile non può esistere una baraccopoli come quella” di San Ferdinando. Dove pochi giorni prima, il 27 gennaio, un incendio aveva mandato in cenere 200 tra tende e baracche uccidendo Becky Moses, 26 anni, nigeriana. Ma lì quella volta nessuno ricorda di aver visto il futuro ministro.
Non si era fatto vedere, il ministro, neanche il 2 giugno dopo le fucilate che avevano ammazzato Soumayla Sacko, 39enne sindacalista maliano che a San Ferdinando viveva e spiegava agli altri braccianti i propri diritti di lavoratori. “Le baraccopoli, i ghetti portano inevitabilmente allo scontro sociale – si era limitato a commentare durante un comizio a Fiumicino – Con calma porteremo la legalità in Calabria e in tutta Italia”.
La prima apparizione si era verificata il 10 luglio: “Nel mio Paese, nel 2018, non si sta nelle baracche. Chi ha diritto a rimanere in Italia ci deve stare con tutti i diritti e i doveri degli altri cittadini”, spiegava il capo del Viminale visitando la tendopoli e specificando poi da segretario legista che “siccome ci sono cinque milioni di italiani in povertà vengono prima loro per casa e lavoro”. “Ringrazio quanti hanno lavorato in questi anni all’accoglienza – concludeva – Qui, però, non si può né lavorare, né vivere“.
Neanche un mese dopo, il 7 agosto, la morte di 16 braccianti stranieri in due incidenti stradali in poco più di 48 ore nella provincia di Foggia aveva riacceso i riflettori sulla piaga del caporalato nei campi del Sud. Salvini aveva preso l’aereo e aveva organizzato il comitato per l’ordine e la sicurezza in prefettura: “Svuoteremo progressivamente i ghetti, non è possibile che in una società avanzata esistano dei ghetti”, aveva detto, specificando di voler usare “tutte le armi legalmente concesse” per la “lotta allo schiavismo, allo sfruttamento e alla immigrazione clandestina: è una priorità mia e di questo governo”.
Nel frattempo il Viminale ha pensato a fare circolari sulle aree degradate nelle grandi città e a Roma, tra novembre e gennaio ha sgomberato qualche centinaio di persone tra il presidio del Baobab e l’ex Penicillina nel quartiere Tiburtino e il Cara di Castelnuovo di Porto, la cui gestione ricade sotto il controllo della prefettura, organo del ministero. La baraccopoli e i suoi duemila dannati però sono ancora lì.
La tradizione è antica e risale ai predecessori dell’attuale inquilino del Viminale. Marco Minniti aveva nominato commissari di governo “al fine di consentire il superamento di situazioni di particolare degrado presenti nelle aree dei comuni di Manfredonia (Foggia), San Ferdinando (Reggio Calabria) e Castel Volturno (Caserta)”, spiegava il ministro del Pd il 21 giugno 2017, perché “l’obiettivo è quello di ripristinare la legalità”. A San Ferdinando il commissario si era insediato il successivo 22 agosto. Oggi la prefettura di Reggio Calabria parla di un piano per trasferire i migranti “nel breve periodo“. E il ministro continua a promettere: “Sgombereremo – ha detto dopo il terzo morto in un anno – L’avevamo promesso e lo faremo”. Quando si parla di legalità i verbi si coniugano sempre al futuro.