Disney però aveva idee ancor più ambiziose. Il suo obiettivo era infatti offrire al pubblico qualcosa di unico, di mai visto prima. A cominciare dalle animazioni, che dovevano essere il più realistiche possibili. Per questo insistette affinché ogni singola scena che vedesse coinvolti personaggi umani fosse prima girata in live-action. Con attori veri, in costume, che sarebbero poi serviti da modelli per i disegnatori. Di per sé il passaggio era piuttosto comune, ma mai si era pensato di applicarlo in maniera così massiva. Anche perché il processo non andava a genio agli animatori, che vedevano in qualche modo ingabbiato il proprio talento. Per Disney, però, lo studio dei movimenti era essenziale, così come quello dei personaggi. Specie di quelli secondari.
Pur orientata attorno alla sua assonnata protagonista, infatti, la pellicola scioglieva la maggior parte dei nodi proprio in assenza di Aurora. Basti pensare che la principessa – le cui linee sono ispirate a quelle di Audrey Hepburn – compare solo in 18 dei 76 minuti complessivi del film, recitando peraltro pochissime battute. Spettava dunque agli altri membri del cast sostituire l’eroina in scena. A cominciare dall’amato Filippo. Primo principe disneyano battezzato con un nome – in onore di Filippo di Edimburgo, marito di Elisabetta II – e figura maschile decisamente più attiva rispetto a quelle apparse nei Classici precedenti. Ad essere sinceri, tuttavia, sin dalla lettura del copione attenzioni e simpatie venivano rapite soprattutto da altre maschere: quelle armate di bacchette. I registi decisero così di affidare il registro comico a un terzetto di fatine-balie, paffute e goffe quanto basta. Fu il loro aspetto, però, a causare nuovi attriti fra Disney e la sua squadra. Già, poiché il grande capo riteneva che dovessero essere sette (come nella fiaba di Perrault) e del tutto indistinguibili. Per il resto del mondo, invece, le ziette sarebbero state tre, ciascuna con una propria verve. Facile dire ora chi aveva ragione. Archiviato il battibecco su Flora, Fauna e Serenella, l’armonia attorno alla figura dell’antagonista dovette dunque sembrare un vero incantesimo. La prima bozza di Malefica, infatti, convinse l’intero studio. Marc Davis si occupò del character design prendendo ispirazione da un’opera d’arte medievale che ritraeva una religiosa in preghiera, ma fasciata da un vestito che pareva arderle addosso. Da lì le corna diaboliche e le movenze viperine.
Dal sogno all’incubo – La pace, tuttavia, durò poco. Abituati a portare il proprio carico di immaginazione in ciascun lungometraggio realizzato sino ad allora, gli animatori più anziani mal digerirono l’autorità e la libertà concessa Eyvind Earle. Il signor Disney, infatti, aveva dato a Earle carta bianca, affidandogli l’intera estetica del film e salutando le linee dolci e tondeggianti adottate sino ad allora. Nelle intenzioni dell’artista newyorkese, ispirato dall’architettura e dall’arte medievale, La bella addormentata doveva apparire come un arazzo in movimento. Animato da un tratto agile, moderno, spigoloso persino. Tutto doveva poi riposare su fondali ricchi di dettagli e resi sterminati dal widescreen Super Technirama 70. Un formato su cui – bisogna ammetterlo – i colori sembravano cantare, ma che richiedeva uno sforzo produttivo immane: se la composizione di un singolo background richiedeva di solito un giorno di lavoro, quelli di Earle ne pretendevano sette, se non dieci. La complessità degli sfondi era tale da costringere l’illustratore a occuparsi in prima persona della colorazione, riducendo la produzione di ogni collega a un solo disegno al giorno. Non un gran ritmo quando il tuo obiettivo è comporne 180mila. Il processo era poi funestato dalle manie di controllo di Walt Disney, che vegliava persino sul respiro dei suoi disegnatori, bocciando di continuo il loro lavoro e costringendoli a ricominciare da capo. La sola scena dell’incontro tra Aurora e Filippo, per esempio, fu cassata da Disney più e più volte.