Non occorre essere estimatori di Matteo Renzi (io l’ho sempre considerato una jattura) per trovare strana la concomitanza per la quale la notizia degli arresti domiciliari comminati ai suoi genitori diviene pubblica proprio la sera in cui il Tribunale del Popolo pentastellato ‘assolve’ Salvini. Non conosco l’inchiesta e se devo credere a quel che si legge l’accusa è consistente. Ma il punto non è questo. In questione è la tempistica. Fa pensare ad un metodo in uso non da ora: certe notizie ‘trapelano’ quando c’è un preciso interesse politico, certe manette scattano se e quando conviene, certi proscioglimenti arrivano solo dopo che il risultato politico è raggiunto, l’accusato azzoppato, il suo onore messo in dubbio. Tutto legale, questo è il bello. Ma quando la discrezionalità attribuita agli inquirenti segue tempi e modalità misteriosamente allineate all’agenda politica di poteri teoricamente non coinvolti, quando è oculatamente modulata in relazione ad imputati eccellenti, la distanza tra uno Stato di diritto liberale e un regime autoritario si assottiglia.
Renzi non è esattamente un cultore della correttezza, a giudicare dal modo in cui furono liquidati i suoi avversari. Per cui potremmo dirgli ‘Stai sereno Matteo’ e infischiarcene. Ma rovesciargli addosso lo scandalo per interposta persona, e proprio nel giorno in cui il partito più votato affida ai suoi iscritti il diritto di stabilire se un alleato di governo è soggetto o no alla legge, puzza di politica ridotta ad intrigo, di giustizia brandita come una mannaia da mani invisibili. E questo riguarda tutti. Beninteso, derive del genere affliggono in varia misura anche altri Stati di diritto occidentali (la Francia è un buon esempio). Ma in Italia tutto è amplificato dalla sgangheratezza del sistema. La polizia giudiziaria (carabinieri, poliziotti, guardie di finanza) spesso risponde in segreto a centri di potere esterni al processo.
Tra i magistrati, dove certo non mancano straordinari servitori dello Stato (Armando Spataro, per esempio), i bravi e onesti sicuramente non sono la totalità, come si ricava dall’incapacità del Csm di instaurare un sistema di premi e di punizioni appena decente. I cronisti giudiziari, alcuni dei quali valorosi, tuttavia intrattengono un rapporto spesso omertoso con gli inquirenti, essendo questi ultimi le loro fonti abituali (col risultato che i lettori non troveranno mai, all’interno di una cronaca, quella che talvolta sarebbe la notizia più interessante: chi e perché ha spifferato le informazioni). E i politici tacciono, perché il colpito appartiene ad una tribù avversaria, per cattiva coscienza, per paura di ritorsioni, perché il discredito che grandina sulla loro categoria sconsiglia di irritare l’opinione pubblica.
Così da lustri il copione si ripete senza mai una sbavatura. Il colpito protesta ma alla fine trova prudente ripetere “Mi fido della giustizia” pur avendo evidenti ragioni per non fidarsi. I mandanti dicono ‘attendiamo l’esito del procedimenti giudiziario’, come se l’esito politico non fosse già stato raggiunto. I giornali rovesciano un’accigliata moralità sul capo del bersagliato, magari omettendo di ricordare che in passato ne avevano scritto con devozione. Ma all’epoca costui era un potente, adesso molto meno, altrimenti non l’avrebbero scaraventato nell’arena giusto in tempo per il telegiornale delle venti.