Politica

Autonomia, così lo Stato centrale finge di concedere più diritti

La questione delle autonomie locali torna a essere di attualità, come istanza di autodeterminazione e di libera scelta di politiche, soprattutto economiche. Al di là di qualsiasi valutazione, riguarda l’esercizio di diritti e la rivendicazione di libertà. Curioso che avvenga in un momento storico nel quale tengono banco idee sovraniste che richiedono una coesione nazionale pressoché totale, laddove invece le tensioni federaliste disegnerebbero autonomia perfino di rapporti internazionali, idee indipendenti di gestione della cosa pubblica e addirittura di gestione delle infrastrutture.

Si tratta però di un tema antico, che nasce dal bisogno avvertito di far valere le eccellenze di un territorio, i suoi meriti amministrativi e produttivi, senza vederli dissolversi nel calderone della solidarietà nazionale: un tema probabilmente ignorato per troppo tempo e ora arrivato, però, a un certo esaurimento.

A parte l’aggregazione dell’ultimo momento da parte della Campania, le richieste di autonomia hanno la firma delle tre regioni settentrionali, motori dell’economia nazionale: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna. Territori che in molti campi danno allo Stato centrale più di quanto ricevano, soprattutto sotto forma di contributi fiscali. Letta così, la rivendicazione appare fisiologica e sacrosanta, tanto più che comprende regioni diverse anche per orientamento politico; ma rischia di essere invece fuori tempo e fuori luogo.

Iniziamo dalla regione che rivendica maggiormente, oltre che autonomia amministrativa, identità culturale e storica: il Veneto. In realtà c’è ben poca comunanza di interessi economici e quindi di prospettive amministrative, ad esempio tra Verona e Venezia. La prima ha un’economia tutta proiettata verso l’Europa centro settentrionale, con la presenza storica di un nodo di interscambio commerciale che porta al Brennero. La seconda – a parte il settore turistico – guarda inevitabilmente verso Est, con interessi soprattutto nel campo delle fonti energetiche.

Treviso rappresenta un’appendice settentrionale legata al manifatturiero, quindi storicamente alle disponibilità portuali veneziane, Rovigo per molti versi vive una simbiosi con Ferrara, tanto che alla stessa regione Emilia Romagna è delegata l’amministrazione dei flussi turistici del rodigino, in virtù dell’affaccio comune sul delta del Po. Da tempo esistono progetti relativi a una possibile “regione del Garda”, che vedrebbe accomunate per interessi economici Verona, Brescia, Trento e anche Mantova, sebbene priva di apertura diretta verso il lago.

Nel 2015 il coordinamento dei collegi degli ingegneri del Veneto ridisegnò per interessi economici e propensioni produttive tutta la regione: risulta un asse tra Vicenza e Venezia, una totale estraneità del veronese e un’auspicabile annessione di Rovigo all’Emilia. Quasi banale ricordare le ricorrenti richieste di Belluno di aggregarsi al Trentino-Alto Adige.

Stiamo parlando – va ribadito – della regione con maggior identità culturale tra quelle che rivendicano autonomia. Se ci spostiamo in Lombardia, potrebbe valer la pena chiedersi cosa accomuni Milano a Mantova. Un’area metropolitana ormai sintonizzata sull’economia digitale più avanzata e una divisa tra vocazione agricola e distretto manifatturiero.

Non diverso il ragionamento per quanto riguarda l’Emilia, così fortemente diversa per economia e taglio imprenditoriale dalla Romagna. Difficile trovare analogie e comunanze di percorso di sviluppo tra il distretto del biomedicale modenese e il modello turistico della riviera di Rimini.

È una questione – ancora una volta – di reale rappresentanza e di rapporti con lo Stato centrale. La questione delle autonomie che si gioca sul desiderio legittimo di reinvestire in proprio i proventi dell’azione fiscale segue in realtà un modello vecchio, laddove lo sviluppo si gioca soprattutto sulle prospettive di mercato agile. In una medesima regione vi sono aree che guardano a mondi economici differenti e richiedono altrettanto differenti investimenti. Come se si parlasse di aziende: ve ne sono di sottocapitalizzate e altre che vivono di investimenti agili e veloci. Quel che manca, forse, non è solo l’autonomia, ma prima ancora la presa di coscienza delle necessità di ridisegnare i territori, gli interessi comuni e le loro rappresentanze.

Un altro esempio è quella che rimane una delle aree agricole più vaste d’Europa, la Pianura Padana. Come si può immaginare un rilancio coerente e organizzato nel momento in cui il reinvestimento dei proventi fiscali locali dovesse seguire logiche diverse da ragione a regione?

Ancora il sistema dei distretti industriali. Pericoloso che aree magari identiche per produzione siano soggette a scelte diverse, a maggior ragione se addirittura contigue, come i distretti della meccanica a cavallo, proprio tra Lombardia ed Emilia. Volendo considerare un esempio di stretta cronaca, si potrebbe notare come una regione dotata di grande autonomia, come la Sardegnal’abbia sfruttata pochissimo, non si dimostri in grado di sostenere autonomamente e in modo efficace il suo prodotto caseario locale e finisca per chiedere allo Stato di esercitare una politica dei prezzi fuori mercato.

I mercati globali richiedono contemporaneamente flessibilità, ma coesione per evitare la polverizzazione di interi settori economici. Si chiede una tutela complessiva di un prodotto nazionale, ma poi si immagina un’autonomia di gestione e di investimenti di risorse. Ancora una volta siamo davanti, in realtà, a un problema di rappresentanza negata, anzi simulata, dalla politica, che nelle presunte autonomie regionali cerca solamente compensazioni di potere rispetto agli assetti nazionali. Federalismo e autonomie sono davvero altra cosa.