Giovedì scorso, a Bruxelles, si sono chiusi i negoziati del cosiddetto trilogo sulla discussa riforma della disciplina europea del diritto d’autore. Come spesso capita con i testi di legge che sono il risultato di faticosi e ostinati negoziati, il punto di approdo scontenta un po’ tutti, perché non stabilisce le regole che i titolari dei diritti avrebbero voluto veder stabilite, non tiene conto delle preoccupazioni per la libertà di informazione sollevate in tutto il mondo da addetti ai lavori e società civile e non è, certamente, il testo per il quale i colossi del web – Google in testa – si sono battuti negli ultimi anni.

Ora la parola passa a Consiglio e Parlamento che, in teoria, potrebbero ancora rovesciare il tavolo e bocciare il testo ma che difficilmente, con la fine della legislatura europea alle porte, lo faranno. Ma la notizia, la storia che fa riflettere, in questo caso, non è questa.

Lo stesso giovedì, una manciata di ore dopo l’annuncio della fine dei negoziati, la Commissione europea, attraverso il proprio account istituzionale su Medium, ha pubblicato un post dal titolo La direttiva sul copyright: come è stato detto alla folla di salvare il drago e uccidere il cavaliere.

La tesi della Commissione è semplice, lineare, inequivocabile: l’opinione pubblica – o almeno quella larghissima parte di essa contraria all’approvazione della Direttiva – nel corso dei lavori preparatori si sarebbe lasciata condizionare dall’azione di lobby di Google e degli altri giganti del web e, per questo, avrebbe “marciato contro” la Commissione europea e le altre istituzioni rimproverando loro di fare i soli interessi dell’industria dei contenuti e di avere poco a cuore la libertà di informazione online.

Basta leggere l’epilogo del post: Quindi la prossima volta, quando ricevi un messaggio sponsorizzato sulla tua cronologia, che dice qualcosa come “l’Ue ucciderà il world wide web come lo conosciamo”, fermati, fermati e prendi in considerazione per un momento. Chiediti: Cui Bono? Chi trae davvero beneficio da questo messaggio o da questa più ampia campagna negativa? Google, Facebook o altri hanno davvero bisogno di pagare per persuadere? Siamo in un mondo in cui la gente comune si schiera dal drago sputafuoco contro il cavaliere con uno scudo blu e giallo?

Confesso che nel leggere il post della Commissione apparso nelle timeline dei miei social ho avuto reazioni contrastanti: ho apprezzato la passione e la determinazione con la quale un’istituzione europea avvertiva l’esigenza di difendere il proprio operato e di spiegare il senso della propria iniziativa di riforma della disciplina sul diritto d’autore ma, al tempo stesso, mi sono sentito dare dello stupido, dell’idiota, dell’etero-condizionato per il fatto di aver pensato – e di continuare a pensare – che la proposta direttiva in questione è per un verso inutile perché non raggiungerà nessuno degli obiettivi auspicati e per altro verso democraticamente pericolosa perché minaccia, per davvero, di limitare la libertà di informazione online.

Avrei voluto scriverlo e rispettosamente rappresentare alla Commissione il mio dissenso ma non sono riuscito a farlo subito. Nelle scorse ore, quindi, sono tornato a leggere il post della Commissione su Medium per scrivere, ma il post era stato rimosso e al suo posto c’era scritto: “Abbiamo rimosso questo articolo perché è stato frainteso in termini che non riflettono la posizione della Commissione”. Non una parola di più e non una parola di meno.

Questa volta le mie reazioni sono state concordanti: un autentico epic fail della Commissione. Come detto non c’è niente che possa essere frainteso, in un post nel quale si dice che “la folla si è lasciata convincere a salvare il drago (Google) e a uccidere il cavaliere con lo scudo blu e giallo (la Commissione)” e, quindi, nel parlare di “fraintendimento” si stava dando una volta di più degli stupidi a milioni di cittadini europei.

E poi è difficile immaginare una scelta più sbagliata, inopportuna, democraticamente insostenibile di un’istituzione che – criticata proprio perché sta introducendo una disciplina destinata a produrre rimozioni di massa di contenuti online e di comprimere il livello di libertà di informazione online – rimuove, dalla sera alla mattina, addirittura un proprio articolo nel quale difende se stessa e dichiara di aver a cuore la libertà di parola. Un’iniziativa a dir poco paradossale.

Avevo deciso di scriverne con più determinazione della prima volta ma, ancora una volta, non ce l’ho fatta subito. Sono, quindi, tornato a provarci questa mattina e, voilà, sul profilo Medium della Commissione era cambiato ancora l’avviso ai lettori. Niente più l’ermetico “abbiamo rimosso perché ci avete frainteso”, ma un ingentilito “Questo articolo pubblicato dai servizi della Commissione era inteso a rispondere alle preoccupazioni, ma anche a interpretazioni errate che spesso circondano la proposta di direttiva sul diritto d’autore. Riconosciamo che il suo linguaggio e il titolo non erano appropriati e ci scusiamo per il fatto che sia stato visto come offensivo. Questo è il motivo per cui abbiamo rimosso questo articolo dal nostro account Medium”.

Meglio, decisamente meglio. Un pentimento operoso, si direbbe in legalese. Ma il fatto resta: nessuno – e men che meno un’istituzione – dovrebbe scrivere usando inchiostro magico, far apparire parole, puntare l’indice contro la folla e poi farle scomparire come fossero state scritte sulla sabbia e cancellate dall’arrivo di un’onda. Le parole, tutte e di chiunque, valgono più di così. E, soprattutto, i cittadini europei non meritano di sentirsi dire dalla loro Commissione che se difendono la libertà di informazione online lo fanno solo perché Google & co. li hanno convinti a farlo. Cara Commissione, rispettosamente dissento e sospetto oggi più di ieri che si stia un po’ sottovalutando la libertà di informazione che è, invece, pietra angolare della nostra democrazia.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

È morta Marisa Luisa Monti Riffeser: è stata l’unica donna editrice di quotidiani in Italia

next
Articolo Successivo

Facebook, perché la causa persa contro Mediaset mette in pericolo la libertà di parola

next