In attesa domani del piano industriale di Tim, il governo gialloverde tenta di mettere una pezza a colori al caso Huawei. E di evitare così che, dopo la crisi con la Francia, si apra un fronte anche con gli Stati Uniti, particolarmente sensibili al tema dello spionaggio attraverso le infrastrutture di telecomunicazioni. “Gli Usa non devono preoccuparsi della nostra lealtà. Non è mai stata una questione. Se c’è un problema possiamo essere aiutati a prendere la decisione migliore ma questo non significa andare contro i nostri alleati americani”, ha spiegato all’agenzia americana Bloomberg il sottosegretario leghista al Mise Michele Geraci, economista con cattedra a Shanghai e uno dei pochi italiani nel governo a parlare correntemente cinese. “La questione non è: Huawei sì, Huawei no. La vera domanda dovrebbe riguardare il fatto che i produttori stranieri di apparecchiature sono autorizzati ad accedere alla tua rete. Non vedo Huawei come un problema, per me è solo uno dei 25 nomi di produttori di apparecchiature tra cui scegliere, con prezzi diversi e qualità diversa“, ha poi aggiunto Geraci, che ha ammesso come cancellare i contratti con Huawei “potrebbe essere un problema”.
Per quale ragione? Huawei, uno dei più grandi produttori al mondo di apparecchiature per le telecomunicazioni, è in prima linea nello sviluppo della nuova tecnologia wireless 5G in Italia. Quella cioè che, assieme alla fibra, promette di rivoluzionare l’industria e la vita quotidiana delle persone con veicoli a guida autonoma e mille altre applicazioni smart. Non a caso, a novembre, l’azienda cinese ha tenuto proprio a Roma il suo forum europeo per raccontare le potenzialità della nuova tecnologia. In quella occasione, il gruppo cinese, assieme alla controllata pubblica Acea, ha anche presentato un progetto pilota europeo di monitoraggio sul territorio nell’area del parco archeologico del Colosseo. Con la benedizione del sindaco della Capitale, Virginia Raggi, che già in precedenza aveva incontrato i vertici di Huawei in una convention realizzata dall’azienda cinese in Parlamento alla presenza del vicepremier Luigi Di Maio. Senza contare che, Campidoglio a parte, Huawei è protagonista in Italia nella sperimentazione 5G anche a Milano, Bari e Matera in dei progetti-vetrina che rappresentano un unicum nel Vecchio Continente.
Agli americani non è sfuggito il dinamismo in Italia dell’azienda cinese che, assieme alla società pubblica di Pechino Zte, domina il mercato delle apparecchiature di rete. Non a caso la questione è stata affrontata nei giorni scorsi in un incontro fra l’ambasciatore Lewis Eisenberg e il vicepremier Luigi Di Maio. E, alla fine della riunione, il vicepremier ha lanciato l’idea di creare una struttura al Mise “per assicurare il controllo della sicurezza di tutti gli apparecchi, software ed operatori”. Del resto, secondo quanto riportato dal Financial Times, l’intelligence britannica avrebbe definito “gestibili” gli eventuali rischi di spionaggio legati all’uso di tecnologia 5G. Ma gli americani non sono convinti che le cose stiano in questi termini. Non a caso, secondo il Wall Street Journal, l’ambasciata statunitense a Roma ha anche convocato un operatore presente in Italia, che ha investito soprattutto in apparecchiature Huawei, chiedendo maggiori dettagli sulla collaborazione in atto con l’azienda cinese.
Da tempo, del resto, gli Stati Uniti hanno avviato una vera e propria guerra contro le infrastrutture di rete prodotte da Huawei e dalla connazionale pubblica ZTE. Un conflitto senza esclusione di colpi che, nel dicembre scorso, ha portato anche al fermo del direttore finanziario di Huawei, Meng Wanzhou, con l’accusa di fare affari con l’Iran. Il tema telecomunicazioni è rovente nelle relazioni fra Pechino e Washington che ravvisa problemi di sicurezza nell’uso di tecnologie cinesi. “Per anni, funzionari del governo statunitense hanno espresso perplessità sul fatto che la sicurezza nazionale potesse essere messa a repentaglio da alcuni fornitori di equipaggiamenti lungo la catena produttiva – spiega un documento del 18 aprile 2018 che porta la firma Ajiit Pai, presidente della Federal Communication Commission, organismo americano che vigila sulle telecomunicazioni -. Porte nascoste (backdoors) su apparati di rete come router e switch possono consentire a poteri stranieri ostili di iniettare virus o utilizzare altri strumenti per rubare i dati privati degli americani, spiare le imprese statunitensi ed altro”.
Di qui, ad agosto scorso, la decisione del presidente Donald Trump di stoppare l’avanzata delle imprese cinesi nelle telecomunicazioni impedendo l’uso di tecnologie Huawei e ZTE per il governo e per i fornitori del governo. A poco è valso che Huawei definisse “semplicemente false” le osservazioni sulla base delle quali gli americani hanno bloccato le imprese cinesi. “Huawei, controllata al 100% dai suoi dipendenti, non pone alcun problema di sicurezza in nessun Paese”, come chiarì una nota ufficiale dell’azienda. “Nessuna agenzia governativa ha mai tentato di intervenire nelle operazioni e decisioni” di Huawei che opera in oltre 170 Paesi.
Difficile dire se la mossa del presidente Trump sia stata motivata solo da preoccupazioni per la sicurezza nazionale e non anche da una strategia commerciale per la supremazia tecnologica. Fatto sta che finora Roma si è mossa in netta controtendenza rispetto a Washington che da un lato è in pressing su tutti gli alleati europei e dall’altro ha conquistato intanto con le sue imprese le più importanti reti europee in fibra (le cosiddette dorsali), funzionali al controllo del traffico dati nell’area continentale e nel Mediterraneo. Del resto, gli americani sanno bene che la partita sulle telecomunicazioni si riapre e si complica con l’avvento della tecnologia mobile di quinta generazione (5G). Soprattutto in Italia, che, tenuto conto della delicata situazione finanziaria, è considerata il ventre molle di un’ Europa in cui i cinesi sono pronti a moltiplicare i già corposi investimenti.
Peraltro non sarebbe la prima volta che Pechino trova terreno fertile a Roma. Persino nelle infrastrutture strategiche. E’ accaduto durante il governo Renzi: nel luglio del 2014, l’esecutivo annunciò di aver venduto al colosso pubblico cinese State Grid Corporation il 35% di Cdp reti, società che controlla l’infrastruttura di distribuzione del gas e dell’elettricità. Si trattò forse di una delle maggiori e significative operazioni effettuate da un gigante pubblico di Pechino non solo in Italia ma anche nell’intero Vecchio Continente. All’epoca il Movimento 5 Stelle intervenne per evidenziare i rischi della cessione. In particolare, in un’interrogazione, datata 6 agosto 2014, i senatori 5Stelle Gian Pietro Girotto e Gianluca Castaldi chiesero all’allora ministro del Mise, Federica Guidi, se il governo, prima di concludere la dismissione, avesse “acquisito il parere dei servizi di sicurezza nazionale, anche in considerazione del fatto che la partecipazione al consiglio di amministrazione della Cdp Reti porterà a diretta conoscenza del Governo cinese informazioni di rilevante interesse strategico, di sicurezza, commerciali e di politica internazionale dell’Italia”. Informazioni che non sono minimamente paragonabili all’enorme flusso dei preziosi dati custoditi dalle reti di telecomunicazione.