Partiti in cerca di un lavoro. Gli emigranti esistono anche in Italia. Vanno verso il nord del Paese, verso l’Europa, verso l’America. Lasciano la famiglia come a inizio Novecento, con una ideale “valigia di cartone”. Ecco alcune delle loro storie raccontate a valigiadicartone.ilfatto@gmail.com

Il messaggio dei genitori ai giovani siciliani è lo stesso da più di quarant’anni ed è riassunto nella frase del vecchio Alfredo di quel film che porto nel cuore, Nuovo cinema paradiso: “Vattinni! chista è terra maligna”. A questo Alfredo, però, aggiunge una cosa che ho scoperto profondamente vera: “Fino a quando ci sei, ti senti al centro del mondo, ti sembra che non cambia mai niente. Poi parti. Un anno due e quanno torni è cambiato tutto: si rompe il filo”. Ho vissuto la mia Palermo con lo stesso sintomo di nostalgia con il quale ci si prepara agli addii, e con la presunzione di chi sente di avere una mentalità aperta, lontana dalle stesse discutibili convinzioni degli altri.

Londra è stata la cura di molti come me che improvvisamente si sono scoperti provincialissimi, fin troppo simili a quelli da cui prendevano le distanze. Quando lo abbiamo capito abbiamo reagito in due modi: o ci siamo ghettizzati con quelli come noi o abbiamo abbracciato il disorientamento. Non ci siamo comunque sottratti alla necessità di tentare ogni giorno – goffamente – qualcosa di nuovo, di imparare ad accettare le risatine a una nostra domanda troppo scontata. Un paese straniero è una grande prova di umiltà.

Non voglio parlare di quelli che restano fuori dall’Italia. Non posso, perché sono tra quelli che hanno provato a tornare. Ricordo la domanda di una giornalista belga: “Che ci fai qui a Londra?” “Sono di passaggio”. ”È quello che dico anch’io, da otto anni”, mi rispose lei ridendo. Forse fu quello a farmi tornare: la percezione di una corsa collettiva verso il nulla, a testa bassa e con ostinato entusiasmo. Quell’assoluta adesione all’immediato è forse la cosa che mi manca di più e allo stesso tempo quella che mi ha fatto rimpatriare.

E allora forse voglio parlare dei ritorni. Di quelli che ti regalano occhi nuovi e che nella tua terra accendono opportunità inedite. Sono i ritorni più belli, e sarebbero anche i più sani. Io, però, a questi ritorni non ci ho più creduto e devo di nuovo all’estero la mia disillusione. Un mio caro amico indiano mi disse che il suo libro preferito era il Gattopardo. La cosa mi creò sgomento, come se lui si fosse appropriato di qualcosa che avrebbe dovuto essere più mio, a patto che esista una misura del possesso di un patrimonio letterario. Di tutto un classico italiano fu una parte in lingua inglese a farmi capire la dimensione secolare del problema siciliano, ossia che non si può dare niente a coloro che non hanno mai chiesto di cambiare. Lo appresi come quei britannici che osservavano in Sicilia la lotta garibaldina per liberarla.

“Uno di loro mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. They are coming to teach us good manners, risposi, but it won’t succeed, because we are gods. ‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ […] : i siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria”.

E allora forse voglio parlare di quelli che sono tornati e non si sono riconosciuti più. Di quelli che purtroppo o per fortuna non hanno messo in discussione la propria terra, ma loro stessi. Quelli che è come se la Sicilia non li avesse mai perdonati di essersene andati, coloro ai quali si è “rotto il filo“. Quelli che alla fine sono ripartiti, ma che da allora non hanno più ritorni, solo questa specie di rincorsa all’identificarsi in qualcosa, un limbo fatto di biglietti sola andata, fogli bianchi e tanto inchiostro dentro, che stenta a venir fuori.

Personalmente dopo aver girato un po’ di Europa e tutto il Nord Italia per lavoro, ho scelto Roma, una città di mezzo che è ancora sud, ma non lo è già più. Amo dire di aver vissuto tre secoli, quello delle campagne riarse di Sicilia, quello vorticoso della City di Londra ed in mezzo questo nostalgico secolo romano.

Scrivo qui perché vorrei chiedere ai miei compagni di viaggio e di generazione – incluso me stesso – di smettere di misurare il mondo a partire da quello a cui non possono più fare ritorno. Di non fare paragoni col passato, non incolpare i genitori del futuro, ma di dar loro merito dei valori che ci portiamo dentro. Di non farsi tentare dall’individualismo, ma allargare il senso di appartenenza e non avvertire più nessuno come altro da se stessi. Di imparare a riconoscere un privilegio quando ci riguarda e magari anche vergognarsene un po’. Prima di cercare fuori da noi le ragioni dello smarrimento credo che dovremmo cercarle nella nostra incapacità di riconoscere il nostro posto nel mondo.

Valerio

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