Chiunque viva la scuola e abbia dei figli in età da cellulare, sa che il momento in cui vengono ritirati i cellulari in classe è spesso drammatico, mentre la riconsegna rappresenta spesso un momento liberatorio, quasi come il primo respiro dopo un’apnea durata un tempo infinito.
Non si tratta di esagerazioni: basta assistere al modo in cui i ragazzi si avventano sul loro cellulare quando al suono della campana dell’intervallo è loro consentito di riprenderne temporaneo possesso. Quello della crisi di astinenza da cellulare è un fenomeno dilagante. Il recente intervento del ministro Marco Bussetti (“Non usare i cellulari, ma c’è la didattica“), che si è dichiarato favorevole al loro uso in classe, purché a scopo didattico, ha avuto almeno il merito di fare luce su un tema che non si può ignorare se si tiene a un’azione educativa efficace.
Il problema è che Bussetti si è limitato ad affermare, in modo piuttosto banale, che i cellulari possono essere utili nella didattica. Ora, mi occupo di come le tecnologie possano essere applicate alla didattica da almeno 20 anni, per questo penso che il ministro si sbagli: o almeno non coglie il punto centrale della questione. Non sono le applicazioni didattiche nei cellulari la ragione principale per cui dovrebbe essere concesso l’accesso (regolato) ai cellulari. È vero che ci sono molte applicazioni didattiche utili che si trovano sugli smartphone, ma queste costituiscono l’occasione, quasi la scusa, per giustificare l’utilizzo di un “oggetto” che copre ben altro e di più importante per i ragazzi, per gli insegnanti e per le famiglie.
Cosa rappresenta il cellulare per i nostri ragazzi? Innanzitutto la “dipendenza” da questi strumenti non è un tema che riguarda solo i giovani: in media un adulto consulta il cellulare una volta ogni sette minuti. Il problema è talmente esplosivo che persino Tim Cook, il capo della Apple, ha avviato un progetto per ridurre la dipendenza da cellulare. È un problema sociale che nel caso dei ragazzi però può assumere valenze ancora più importanti: in particolare per loro, che passano 5-6 ore al giorno a scuola, costretti a stare seduti, immobili, in un luogo ove si fanno esperienze (quasi) sempre noiose e ove sono costantemente vigilati. Per loro significa essere sotto pressione. E chiudere in pochi metri quadrati 25-30 adolescenti significa, nelle situazioni più conflittuali, accendere il fuoco sotto una pentola a pressione piena di gas esplosivo. Basta un nonnulla per farla saltare in aria.
In questo contesto il cellulare assume il significato di via di fuga da un luogo in cui la pressione sociale è troppo alta per molti dei nostri studenti: il cellulare diventa un oggetto fisico che metaforicamente rappresenta una via di fuga da un luogo in cui non vorrebbero essere. Il solo fatto di averlo a disposizione consente di “abbassare la tensione sociale” e di ridurre l’intensità dei conflitti in aula.
Per i ragazzi il cellulare è la porta di accesso a un mondo che rappresenta la libera uscita da uno spazio in cui si sentono costretti a restare (lo spazio fisico dell’aula) e in cui non vorrebbero essere. È l’accesso a un mondo che è il proprio spazio privato e a cui tutti gli altri – adulti, insegnanti, genitori – non hanno accesso. È “fisicamente” una porta aperta sul mondo a portata di dito.
Questo è il motivo vero per cui ha senso ripensare al modo in cui “usare” il cellulare in classe. Concedere l’accesso al cellulare in classe ha un effetto “fisico” sul clima in aula tra i ragazzi e l’insegnante, ma anche tra di loro. È solo buon senso? Per nulla, si tratta di neuroscienze applicate in classe. In tutti i manuali più recenti sul tema si auspicano interventi in cui costruire un clima “non minaccioso” in classe. Stephen Porges ne tratta appunto nel suo ultimo libro di recente tradotto in italiano: Guida alla Teoria Polivagale – il potere trasformativo della sensazione di sicurezza.
Quando per qualsiasi motivo un alunno si sente minacciato da un compagno o, purtroppo, dall’insegnante, il solo fatto di sapere che ha a disposizione una via di fuga metaforica come il cellulare contribuisce ad abbassare “la pressione nervosa” e a rendere più tranquillo sia il singolo che tutta la classe, evitando in molti casi scariche aggressive pericolose per tutti. Di fatto il cellulare può rappresentare un’alternativa all’esplosione violenta, alla necessità di scaricare questa energia aggressiva in modo violento sui propri compagni, come per esempio nei casi di bullismo, nei casi peggiori sugli insegnanti.
La didattica diventa allora un modo notevole per educare e non solo per istruire. Usare il cellulare per accedere alle tecnologie della didattica è straordinario, perché facendolo non solo si insegna in modo “più moderno”, ma soprattutto perché si abbassa la tensione in classe, dando delle regole di accesso ai cellulari. Comprendere le ragioni profonde dell’attaccamento al cellulare diventa per noi adulti anche un modo per utilizzarlo, per “educare i ragazzi a un uso intelligente delle tecnologie” e contemporaneamente per lavorare in modo più rilassato e con meno tensioni in classe. Provare per credere!