La Cassazione ha respinto il ricorso di Gian Luca Rana, a.d. del pastificio creato da Giovanni Rana, contro la sentenza della Corte d'appello che lo aveva condannato a risarcire un ex dirigente dell'azienda. Per la Suprema Corte, le sue offese hanno arrecato "concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore, nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione"
Sentirsi affibbiare l’epiteto di “finocchio”, in senso dispregiativo, non fa piacere a nessuno. Tantomeno se ciò avviene pubblicamente e per un periodo prolungato di tempo. Addirittura anni. Se questo poi si verifica nell’ambiente di lavoro, e chi si rivolge in tal modo è addirittura il datore di lavoro che si rivolge ad un dipendente, quest’ultimo alla fine ha il diritto di stancarsi. E di rivolgersi a un giudice. Che gli ha dato ragione.
È accaduto a Verona, negli uffici del Pastificio Rana, produttore di tortellini e pasta. L’imprenditore è addirittura l’amministratore delegato dell’azienda, Gian Luca Rana, figlio del presidente Giovanni. La vittima era un manager. Ma il tenore delle offese e, soprattutto, la loro reiterazione nel tempo, costituisce, secondo una sentenza definitiva della Cassazione, “un pregiudizio grave e concreto alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione”. Il principio, applicato al fatto, era già stato affermato dalla Corte d’Appello di Venezia, come conferma di una prima sentenza emessa dal Tribunale di Verona. Il sigillo definitivo è stato apposto dalla Cassazione, che ha respinto il ricorso di Rana e ha ribadito che la condotta era “vessatoria” e che, di conseguenza, l’azienda è tenuta a risarcire il dipendente.
Nello specifico, quell’espressione era stata usata più volte in un arco di tempo che va dal 2001 al 2007. A testimoniarlo erano stati alcuni colleghi di lavoro che avevano confermato le “ripetute offese sulla presunta omosessualità del dirigente… sistematicamente apostrofato col termine finocchio”. L’uomo aveva atteso la risoluzione del rapporto di lavoro, poi si era rivolto a un avvocato e aveva fatto causa, sostenendo che quelle espressioni gli avevano causato uno stato di ansia e di stress, arrecandogli un pregiudizio sia alla vita di relazione, che alla propria dignità e professionalità. I giudici, sia in primo che in secondo grado, avevano condannato i datori di lavoro a pagare sei mesi di stipendio come risarcimento, considerando la gravità della mancanza di rispetto e la “lesione della personalità morale del lavoratore”.
La difesa di Rana, secondo cui si trattava solo di espressioni scherzose, non ha convinto i giudici. Non si trattava del frutto di un clima instaurato nell’azienda e non basta il fatto che il manager non si fosse ribellato, facendo le proprie rimostranze all’amministratore delegato, per sostenere che quelle espressioni verbali fossero innocue. Il silenzio del dirigente, secondo i giudici, era la conseguenza del fatto che il dipendente fosse “in una condizione di inferiorità gerarchica”. Oltre alle sei mensilità di retribuzione, verranno risarciti anche 5mila euro per le spese di giudizio.