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Candido Cannavò, a 10 anni dalla sua morte ricordo ancora quella telefonata

Di quel pomeriggio di dieci anni fa ricordo le lacrime, che affogavano le parole che dal mio telefono in Sicilia arrivavano a Milano, nel cuore della redazione, colpito dalla morte del “Direttore”. Piangevo per la morte di Candido Cannavò con un amico, Daniele Redaelli, scomparso da poco, e che aveva lavorato sempre al suo fianco, a La Gazzetta dello Sport.

Le lacrime di Daniele trascinavano le mie, lui conosceva il direttore, il giornalista e l’uomo Cannavò. Io praticamente nulla, ero e sono un estimatore, le poche volte che me lo ero trovato davanti mi ero bloccato, quasi intimorito dal rispetto che nutrivo per un mito. Sì, Candido Cannavò per me era il mito del giornalismo, il siciliano che arrivava a Milano e per 19 anni dirigeva il più importante quotidiano sportivo italiano. Un modello inarrivabile che, da giovanissimo e inesperto di redazioni, avevo provato ad avvicinare a modo mio.

Era un sabato di tanti anni fa, avevo preso un treno che dalla provincia mi portò a Milano, non ci ero stato tante volte ma, come guidato da un richiamo, fui rapidissimo: Stazione Centrale, metro e via Solferino. Mi fermai un attimo davanti al civico 28 e al grande portone. La casa della Gazzetta per 38 anni (fino al 2014) mi emozionava sempre e quella era la prima volta che ci mettevo piede. Con l’ingenuità e il candore dei miei pochi anni entrai e in portineria chiesi ostentando sicurezza. “Vorrei incontrare il direttore Cannavò!”. Ovviamente fui rimbalzato, con gentilezza, dai portieri che mi suggerirono di farmi dare un appuntamento scrivendogli. L’internet non si era ancora preso tutto e per questo pensai di scrivere una lettera di mio pugno. Lo feci di getto, sul treno con cui tornai indietro, deluso per il fatto di non aver neppure visto il mio idolo Candido ma speranzoso.

Nella mia lettera, scritta a mano, avevo messo tutto me stesso, la mia passione per il giornalismo, la mia ammirazione per lui, la mia sicilianità, le mie preoccupazioni. C’è l’ho ancora in un cassetto quella lettera, l’originale, perché la mia grafia è roba da geroglifici e quindi, giunto a casa la ricopiai in “bella” e la spedì il giorno successivo. Qualche sera dopo arrivò la telefonata, in anonimo, era lui. Mi chiese cosa studiassi, se avessi già fatto un po’ di pratica e mi diede qualche consiglio utile a proseguire sulla strada impervia del giornalismo.

Non portò a nulla questa telefonata ma ne fui contento, per giorni. Aveva letto la mia lettera e aveva voluto conoscere chi l’avesse scritta. Qualcosa ci aveva visto, credo. Non so, non l’ho voluto mai sapere. E comunque le altre volte che mi è capitato di incontrarlo e scambiarci due parole mi ero sempre bloccato, in divinazione.

Anche se non sembra, il protagonista di questo racconto è lui, io sono solo il lettore che gli riconosceva il merito di aver guardato dentro lo sport senza fermarsi ad esso. Andando a raccontarlo oltre il campo, la pista, la vasca, seguendo il campione quando sveste i panni dell’atleta e resta uomo. Perché l’umanità è quella che Cannavò aveva raccontato negli anni in cui faceva il cronista a La Sicilia. Poi, proiettato nella grande realtà sportiva rimase fedele a se stesso e lo mise in chiaro sin da subito, il primo giorno da direttore della Rosea scrisse infatti: “Lo sport è uno dei fenomeni massimi del nostro tempo: è attività fisica e costume, è rito e spettacolo, è passionalità e cultura, è fascino del campione ed è anche umile e suggestiva scoperta di una corsa sui campi”. T

emo che questo modo di intendere e raccontare lo sport sia ormai desueto, e sono da proteggere coloro che ancora provano a farlo senza contaminazioni. Le lacrime per la scomparsa di Cannavò allora erano dettate dalla consapevolezza di ciò che si perse. Dal primo giorno in cui non fu più direttore della Rosea, fino alla morte, continuò a vivere in Gazzetta ed essere la Gazzetta. Era un direttore emerito che sapeva incidere “Candidamente” nei suoi interventi sul “suo” giornale ma ebbe la libertà di raccontare squarci di mondo nei libri che scrisse in pochi anni. La disabilità, i preti di strada, il carcere e tanta altra vita che suscitava in lui una scintilla. Ecco, ho trovato la chiusa, la scintilla che certi uomini riescono a trasmetterti valgono un ricordo come quello che ho umilmente messo insieme oggi, risalendo con la mente su quel treno che tagliava la pianura padana e ritrovandomi ancora ingenuo, appassionato, voglioso di scoprire e di raccontare. Di scrivere. Con quel fuoco che ti si accende improvviso e che se guardo bene ha delle sfumature precise, rosa.