“Negli ultimi anni si sono ritrovati campioni da record: da cinque residui diversi presenti nelle mele, a otto nelle fragole, a 15 nell’uva da tavola fino a un massimo di 25 residui in campioni di alimenti provenienti dall’estero, alimenti dalle ben note proprietà nutrizionali che però finiscono sulle nostre tavole carichi di pesticidi”. L’ultimo rapporto Stop pesticidi di Legambiente, presentato pochi giorni fa, è illuminante di quello che arriva nei piatti di chi consuma frutta e verdura convenzionali.
Non sono ancora accertate scientificamente le conseguenze sulla salute di quel pasto “arricchito” che fanno quotidianamente milioni di cittadini italiani, con particolare riferimento proprio a quel nervo scoperto che è costituito dai “multiresidui”. Ma a dubitare pubblicamente che possa trattarsi di effetti balsamici, forse, non si correrebbero particolari rischi di denuncia per procurato allarme.
Nello stesso rapporto, per esempio, si legge che “una mole crescente di studi scientifici dimostra le ricadute negative che l’esposizione diretta o indiretta ai pesticidi può produrre sull’ambiente e sulle persone, in primis gli agricoltori, i bambini, gli anziani”. E ci si pone, quindi, la questione nevralgica: “i piani di controllo dei residui dei prodotti fitosanitari presenti negli alimenti predisposti a livello europeo e nazionale, non dedicano ancora la giusta attenzione ai campioni multiresiduo e ai possibili effetti che potrebbe avere l’azione sinergica delle diverse sostanze attive sulla salute delle persone in quanto la definizione del limite massimo di residuo consentito per legge negli alimenti, ossia l’Lmr elaborato dall’Autorità per la sicurezza alimentare (Efsa), si basa ancora sul singolo principio attivo. In tal modo, si esclude la valutazione degli effetti sinergici che potrebbero derivare dalla presenza concomitante di più residui chimici in uno stesso stesso alimento, seppur a basse concentrazioni ed entro i limiti di legge”.
È la stessa questione che ben più di 30 anni fa già prospettava, con straordinaria lucidità, Ulrich Beck, nella sua fondamentale La società del rischio: “Di particolare gravità appare il problema che le ricerche impostate solo su singole sostanze inquinanti non possono in alcun modo rilevare la concentrazione di sostanze inquinanti nell’uomo. Ciò che può apparire ‘innocuo’ per un singolo prodotto è forse estremamente nocivo se raccolto in quei collettori finali del consumo che sono diventati gli uomini nello stadio avanzato della logica del mercato”.
Un contributo interessante in materia è arrivato di recente dalla Francia. “L’associazione più forte è stata osservata per le aree con la più alta percentuale di terreni agricoli dediti alla viticoltura, con un’incidenza della malattia maggiore del 10% rispetto alle aree senza viticoltura”. Quella di cui si parla è un’associazione assai poco edificante: tra rischio di malattia di Parkinson e pesticidi. Le parole sono degli autori del recente studio epidemiologico che ha indagato la problematica e servono a introdurre un tema specifico: il ruolo della viticultura convenzionale, dunque del vino, nello spargimento a piene mani di fungicidi, insetticidi e altre sostanze parimenti benefiche per la terra e per i suoi abitanti, a partire dagli umani. Come accade, per dirne solo una, in ambito di bollicine, tanto che in una delle zone più vocate a questa produzione alcune persone si sono stancate di essere irrorate come peronospore e hanno addirittura indetto un referendum sul punto.
D’altro canto, è doveroso rimarcare che proprio dal mondo del vino giungono segnali virtuosi di grande rilievo. A partire, ad esempio, dalla stessa terra del Prosecco Docg, dove un Protocollo viticolo di autoregolamentazione per la gestione sostenibile dei vigneti ha messo al bando diversi principi attivi come Folpet, Mancozeb e dal 1° gennaio 2019 il celeberrimo glifosato. Oppure dalla Toscana dove vi sono lavori in corso in una Doc, la Valdarno di Sopra, per convertirla in biologica per disciplinare, con l’ipotesi di una meritevole primogenitura su base continentale. Peccato che gli enti preposti, a quanto pare, non stiano brillando per sensibilità alla sostenibilità; ma anche solo per ricettività a una sollecitazione che, se accolta, avrebbe un enorme significato di natura imprenditoriale per questo manipolo di viticultori dallo sguardo lungo e per il loro territorio, nonché, più in generale, di politica agroalimentare per un’altra, più avanzata, idea di “sistema Italia”. Oppure ancora da Roma, dove nel prossimo fine settimana una delle realtà più significative della variegata galassia del “vino naturale” organizza una interessante iniziativa enoica di degustazione, con momenti di divulgazione e dibattito.
Queste e altre analoghe buone idee e uguali pratiche, sparse per l’Italia, iniziano a configurare una sorta di movimento del “vino sostenibile”, pur in fase embrionale. Insomma, oggi il vino, come tutta l’agricoltura convenzionale, è una delle principali cause delle malattie della terra e di chi ci vive. Ma, a quanto pare, potrebbe anche iniziare ad essere uno dei rimedi a quei mali. Uno dei più buoni, peraltro.