Freddie Mercury o Rami Malek? No, non è uno scherzo. Pensateci bene. Chi è candidato agli Oscar 2019 come Miglior attore protagonista: il leader dei Queen o l’attore californiano di origini egiziane? L’icona originaria o la sua copia carbone? Chiaro, la notte del Dolby Theatre si chiuderà sul primo piano di Malek vincitore, ma sottotraccia ci sarà Freddie. Tanta e tale la mimetizzazione della performance che oramai quando si ritrovano filmati con il vero Mercury sembra quasi che qualcosa non vada. Insomma, Malek vincerà a mani basse e chiudiamo qui l’approfondimento di categoria.
Eppure qualcosa non torna. Almeno per noi. Intanto il 37enne Malek, in fondo al primo vero grande ruolo da protagonista (se si eccettua un discreto ma sconosciuto Buster’s Man Heart) nel film di Singer/Fletcher ci ha convinto a metà. Perché la prima parte di Bohemian Rhapsody è carnevalesca, sopra le righe, rutilante. Proprio per quel Freddie istrionico modello Frank N. Furter del Rocky Horror Picture Show. Poi nella seconda, in quella devozionale tendente al mistico, Malek con baffi, jeans attillati, canottiera e scarpe da tennis, è meno esuberante e più concentrato verso una sostanza canora e performativa. L’apoteosi del concerto di Wembley con la recitazione/copia, inquadratura per inquadratura, movimento del corpo di Mercury per movimento, fa davvero impressione. Ma ripetiamo è sempre l’effetto sdoppiante da Madame Tussauds.
Un po’ come il mefitico Dick Cheney di Vice che Christian Bale è riuscito a far arrivare fino alla cinquina degli Oscar 2019. Mimetizzazione totale. Protesi su protesi. Fino alla sovrapposizione tra matrice e copia. Una maschera, insomma, che ricorda molto concetto e realizzazione dell’Andreotti de Il Divo interpretato dall’immenso Toni Servillo (pare che il regista Adam McKay vi si sia ispirato). Solo che il Cheney di Bale, dato per favorito a fine 2018, è un personaggio negativo. E i cattivi a Hollywood nella notte degli Oscar non hanno vita facile. L’ultimo essere magneticamente spregevole che ha vinto in questa categoria è sicuramente il Daniel Plainview/Daniel Day-Lewis de Il petroliere (2007). Dopo solo martiri, malati, balbuzienti, primi ministri e presidenti.
Scherziamo, ovviamente, perché alcuni di questi sono stati davvero bravi. Ma Bale, candidato per la quarta volta, con una vittoria come Miglior Attore Protagonista nel 2011 per The Fighter, di fronte al Freddie/Malek sembra essere evaporato come neve al sole. Peccato, perché comunque questa sua idea molto concreta di affrontare i ruoli dimagrendo (L’uomo senza sonno) e ingrassando (American Hustle) come un palloncino che si gonfia e sgonfia meriterebbe maggiore attenzione. Da contraltare a livello performativo il Van Gogh di Willem Dafoe, oltretutto Coppa Volpi all’ultimo Festival di Venezia, nel film di Schnabel, Sulla soglia dell’eternità. Dafoe, 63 anni, Cristo scorsesiano proibito, Goblin di Spider Man, Pasolini per Abel Ferrara, sergente in Platoon, e dal 2005 sposato con la romana Giada Colagrande, è un attore che non ha bisogno di affermare nulla. È un talento mostruoso e versatile, ambivalente e maturo. Quattro nomination, quest’anno la prima tra gli Attori Protagonisti, Dafoe regala un Van Gogh fragile e febbrile non solo attraverso trucco e parrucco, ma lavorando sull’intensità e la modulazione psicologica che il personaggio richiedeva, nel corso di una stessa sequenza o nel progredire del film (e della celebre tragica pazzia del pittore). Farlo vincere non sarebbe uno sgarbo per nessuno.
Anche per Viggo Mortensen si tratta di un’interpretazione con consiglio del nutrizionista e dietologo. Il suo Frank Tony Lip Villalonga di Green Book, per il quale ha messo su parecchia pancia, è grassone e imponente, protettivo e volgare. Un ruolo tendenzialmente comico che generalmente non è proprio il top per vincere l’Oscar. Eppure per l’attore 60enne dalla doppia cittadinanza danese/statunitense, il fascinoso Aragorn de Il signore degli anelli, siamo dalle parti di una duttilità che fino a qualche tempo fa non gli era congeniale, tutto chiuso in personaggi nervosi, istintivi, solitari. Il suo Tony Lip è un eroe buono che in un’annata senza favoriti avrebbe sicuramente meritato un Oscar.
Ultimo, ma per noi primo sopra ogni altro, è chi ha lavorato classicamente sulle basi della recitazione e del canto, sulla dolente presenza in scena, senza artifici e paragoni da biopic. Bradley Cooper è il nostro preferito in assoluto tra le cinque nomination per l’Oscar 2019 come Miglior Attore. A star is born che si è prodotto, scritto, girato, interpretato e cantato live in scena, sarà sì un remake, ma è cinema autentico, ispirato, totalizzante, a suo modo maledettamente performativo, proprio attraverso quella fisicità e magnetismo che il suo pigmalione Jackson Maine sta lentamente perdendo e che donerà alla sua scoperta, alla sua amata, Ally/Lady Gaga. Il coefficiente di difficoltà nell’interpretazione di Jackson è molto più alto che per il favorito Malek non fosse altro che per la capacità mettere in scena una celebrities all’interno di un tutto sfavillante, lavorando però sulla sottrazione, sulla decostruzione, sulla marcia indietro, e non sulla ben più facile spinta euforica verso gli allori. Questione di punti di vista, ma Cooper qui in mezzo, è stato il più bravo di tutti.