Due cineasti, Alfonso Cuarón e Pawel Pawlikowski, hanno setacciato i ricordi delle proprie famiglie per rivelarci attraverso drammi esemplari, Spike Lee è tornato a narrare le paradossali aberrazioni del KKK con un film paradigmatico ed esplosivo (BlaKkKlansman) e lo stesso ha fatto Adam McKay mettendo al centro l’anima nera della politica americana (Vice), mentre Yorgos Lanthimos si è spinto fino all'Inghilterra del XVIII secolo per irridere i piccoli/grandi giochi del Potere, peraltro al femminile (The Favourite)
In un mondo ideale, a quest’edizione degli Oscar dovrebbero vincere tutti e cinque i registi candidati. Il motivo? Semplicissimo: ciascuno ha diversamente espresso attraverso i film nominati il proprio cinema migliore. Elaborando testi complessi e raffinati declinati su famiglie, relazioni di coppia o individui “estremi” (nel Bene o nel Male) hanno raccontato i “sintomi” della Storia, rintracciandone gli Zeitgeist in periodi emblematici, fra culture, lingue, costumi e sentimenti così differenti fra loro eppure così assimilabili nell’applicarsi alla fragilità umana.
Due cineasti (Alfonso Cuarón e Pawel Pawlikowski) hanno setacciato i ricordi delle proprie famiglie – entrambi in bianco&nero – per rivelarci attraverso drammi esemplari (Roma e Cold War) il senso di un passato recente fatto di soprusi e barriere, Spike Lee è tornato a narrare le paradossali aberrazioni del KKK per spiegarci quelle contemporanee con un film paradigmatico ed esplosivo (BlaKkKlansman) e lo stesso ha fatto Adam McKay mettendo al centro l’anima nera della politica americana in una commedia cinica e linguisticamente sovversiva (Vice), mentre Yorgos Lanthimos si è spinto fino all’Inghilterra del XVIII secolo per irridere i piccoli/grandi giochi del Potere, peraltro al femminile (The Favourite). Due statunitensi, un messicano, un greco e un polacco: questa è la cinquina – felicemente internazionale – dei candidati alla Miglior regia deliberata quest’anno dall’Academy, eccellenze di sguardi e visioni di mondo su film da tenere nella memoria come cinema maiuscolo.
Purtroppo solo uno potrà vincere l’Oscar e costui, pronostici da scommettitori alla mano, sarà Alfonso Cuarón. Favorito in quasi tutte le categorie ove è presente (4 sulle 10 nomination totali di Roma, fra cui quella a Miglior film), il già premiato dall’Academy per la regia di Gravity nel 2014 sfida gli anglofoni dei dell’olimpo hollywoodiano con un’opera in spagnolo (candidata infatti anche come miglior film in lingua straniera) girata e ambientata in Messico, con attori sconosciuti e immagini in B/W. Insomma, un film d’Essai, verrebbe da dire, lontanissimo dai canoni dell’immediatezza e della trasparenza di certa classicità americana.
Al suo pari è il collega polacco Pawlikowski, anch’egli presente nella cinquina del miglior film straniero che peraltro ha già vinto con Ida nel 2015, che conCold War ha portato le stesse “complessità” di fruizione al pubblico USA semplicemente spostando il territorio dal Messico alla Polonia. Certo, si tratta di film radicalmente diversi fra loro, specchio di due sguardi quasi antitetici nella rappresentazione dello spazio, del tempo e dei personaggi (il messicano analitico e accumulatore, il polacco sintetico e sottrattore) ma di certo portatori di racconti cinematografici straordinari sull’umana ordinarietà. Ma fra i due, si diceva, vincerà Cuarón, dato dai bookmakers alla certissima quota di 1 volta a puntata (mentre Pawlikowski a 34 volte la puntata) non solo per la qualità oggettiva della sua epica famigliare (che gli ha fatto vincere per la regia già ai DGA, BAFTA, BFCA, e Golden Globe) ma anche per la popolarità di cui gode negli States e per la politica anti-trumpista cavalcata a Hollywood specie rispetto al muro col Messico. Il collega polacco si dovrà probabilmente accontentare di aver trionfato agli European Film Awards e di aver vinto per la regia all’ultimo Festival di Cannes.
Fra loro, per le agenzie di scommesse, è posizionato il mitico Spike Lee con il suo BlaKkKlansman dato a 10 volte la puntata. Una quota assolutamente buona per il grande regista dei diritti civili black e non solo, capace di ritrovare il meglio di sé facendo ridere e riflettere su passato che diventa presente, nell’assurdità di una storia vera che vide un poliziotto nero fingersi “telefonicamente” bianco e sgominare un’operazione razzista organizzata dal nuovo Ku Klux Klan. Acclamato al festival di Cannes dove si è conquistato il Gran Prix du Jury è da molti considerato il miglior film di Spike Lee ad oggi.
Sulla medesima quota di 41 volte a puntata per gli scommettitori sono collocate due opere che possono considerarsi tutto fuorché inferiori a quelle qui sopra descritte: The Favourite del greco Yorgos Lanthimos e Vice dell’americano Adam McKay. Anch’esse estremamente diverse fra loro per il linguaggio cinematografico esibito, hanno tuttavia più aspetti in comune di quanto non sembri a un primo sguardo. Entrambi, infatti, lavorano su personaggi di potere realmente esistiti (la regina Anna Stuart e il vicepresidente americano Dick Cheney) assurgendoli a simboli assoluti, vittime – la prima – e carnefici – il secondo – della Storia in cui sono inseriti. Magniloquenti, caustiche, dirompenti e irriverenti al massimo livello: due commedie/tragedie che profumano di Shakespeare e ci portano guardare il Bene e – soprattutto – il Male con occhi disincantati, a prescindere che i protagonisti siano abbigliati di vesti dorate o di una semplice camicia in flanella del Nebraska.