Nonostante il tempo trascorso, Corruzione al Palazzo di giustizia – dramma concepito da Ugo Betti 75 anni orsono, nel 1944, e rappresentato per la prima volta, 70 anni fa, il 7 gennaio 1949, al Teatro delle Arti di Roma – è di una sconvolgente attualità. “In una città straniera ai giorni nostri” il cadavere di Ludvi-Pol, un losco e potente faccendiere – prima usato e poi liquidato dalla politica, al centro di un grave caso di corruzione che riverbera i suoi effetti sulla magistratura – viene trovato dentro il palazzo di Giustizia.
È il consigliere Erzi a condurre le indagini per conto del ministro ed esse non risparmiano nessuno, men che meno i giudici: sono “in parecchie centinaia”, lì dentro, “a far svolazzare le (loro) toghe nere e brontolare le (loro) giaculatorie. Sarebbe contro natura se in così grosso convento mancasse qualche cattivo negligente frate”. Come però chiarisce immediatamente Erzi, “il ministro non si preoccupa dei frati negligenti. Egli pensa che ben nascosta sotto qualcuna delle tonache (…), debba esservi la piccola rosea pustola della lebbra. Corruzione”.
La complicata architettura interna del palazzo, descritto come “immenso, vero labirinto”, è metafora dell’autonomia di cui gode l’Ordine giudiziario rispetto agli altri corpi dello Stato: il fatto che solo dal suo interno può essere pronunciata l’ultima parola nel campo dell’amministrazione della giustizia ne fa un mondo a sé, una centrale di potere insindacabile. Di fatto, quella stessa società che dà un potere così insindacabile ai giudici non fornisce loro quella forza morale di cui essa stessa ha perso il segreto.
Il palazzo è esposto, dunque, a tutte le pressioni e i ricatti degli interessi particolari che si contrappongono nella società: “Sapete caro Erzi – dice il giudice Croz, ‘moribondo, da molti mesi’, non di meno aspirante per anzianità alla presidenza della sezione delle grandi cause, finita ben presto nel fuoco dell’attenzione investigante – cosa siamo noi poveretti, noi infelici giudici di questa sezione? Un piccolo, solitario e malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, blocchi ferrei, manovrati da uomini tremendi…”.
Divisi da miserabili gelosie di mestiere, da insanabili conflitti di carriera, i giudici non trovano nemmeno nella loro coscienza la forza per resistere a queste pressioni: “Il guaio è che fra codesti ferrei blocchi, circolano invece dei gusci piuttosto fragili, che vanno in frantumi per nulla…”. Insomma, il palazzo, costruito per la difesa della giustizia, è dominato, emblematicamente, dalla legge del più forte. Con la sottile ed efficace ipocrisia, oltretutto, di muovere trame di interessi privati in nome dei doveri della legge morale, del bene comune. Dalla base ai piani alti del palazzo, nella sottostante città, dai quartieri popolari a quelli nobili, il sospetto è arma subdola e velenosa.
Il compito iniziale di descrivere questo microcosmo, la mefitica atmosfera di quelle aule, di quegli uffici, il diffondersi del virus che contagia la città, è affidato al giudice Bata: “La gente è fatta per chiacchierare. Il palazzo poi è la miniera, è il pozzo, è il nido del malcontento, dei sussurri. Comincia uno, a spargere calunnie, l’altro seguita, il giorno dopo sono dieci, venti, e zu e zu, e zu e zu: è come una cancrena che s’allarga”.
Gli altri giudici incalzano, descrivono il malcostume generale, che coinvolge anche “i giornali; subdoli… i partiti, gl’intrighi”, e sentono “in tutto questo una cupa volontà, una manovra (…) Ma soprattutto è la città, sapete? La città infame, infetta. Non ho mai visto una popolazione più maligna e corrotta (…) Sì, un vero immondezzaio. Il curioso è che esso ribolle d’indignazione perché nel bel mezzo del suo fetore esiste un palazzo dove l’aria non sarebbe abbastanza balsamica. Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe di somigliare un tantino ai cittadini”.
Il giudice che ha avuto anche una sola prima debolezza resta esposto al ricatto, diventa schiavo dei potentati economici e politici; a essere falsata allora non è più soltanto la giustizia formale delle leggi, ma anche quella sostanziale che esse dovrebbero tutelare: tutta l’atmosfera del palazzo ne è corrotta.
Su queste macerie umane, accanto al giudice Croz, disilluso e con molta esperienza degli uomini, si muove, probabilmente con più cinismo e disprezzo degli uomini, il più giovane Cust, il quale si prepara a soffiargli il posto, che pure gli spetta di diritto, anticipando notevolmente i passi della propria carriera. Entrambi concorrono alla successione dell’anziano presidente Vanan, figura un tempo carismatica, ma ora in caduta libera: su costui, mentre è assente, tutti gettano discredito, lodandone prima i meriti passati per poi deprecare, facendogliene carico, la presente corruzione morale.
Cedendo ai consigli interessati di Cust che, dietro un ipocrita rigore morale, tira i fili dell’aggrovigliata trama di sospetti, Vanan muove, del resto, egli stesso quei passi falsi che convoglieranno ulteriormente su di lui i sospetti di Ezri. Ed è sempre il corrotto Cust a svelare fragilità e vizi del padre a Elena, la giovane figlia del presidente Vanan, spingendo la giovane, che ha sempre creduto nella dirittura paterna, a gettarsi sconvolta nella tromba dell’ascensore. Poco dopo muore anche Croz, vinto dalla malattia, ma non prima di aver ottenuto le prove della colpevolezza di Cust e di essersi vendicato, a suo modo, accusando se stesso e indicando in Cust il successore di Vanan.
Sol che si pensi al tempo presente, all’uso politico delle procedure giudiziarie e anche dei pentiti, con la mente rivolta al tragico dramma delle epurazioni dei collaboratori del fascismo che aveva davanti Ugo Betti, ci si rende conto di come il magistrato drammaturgo sia riuscito perfettamente a descrivere un meccanismo perverso, la cui applicazione può variare, ma la cui sostanza resta molto simile a se stessa, nello scorrere del tempo.
Il potere e l’abilità dei padroni della giustizia è tale da garantire loro l’impunità. E il palazzo, di cui essi conoscono tutti i meandri segreti, è la loro difesa: le sue “sono stanze molto quiete; vi siedono uomini dal viso malaticcio, proprio di chi vede raramente il sole; uomini che, per lunghi anni, ascoltando in silenzio molte bugie, hanno esaminato azioni umane di straordinaria sottigliezza e perfidia; uomini la cui esperienza è immensa. La gente vede oltre il tavolo dei signori un po’ logorati e cerimoniosi. Ma in realtà sono dei lottatori (…) Generalmente hanno il sonno difficile e così covano le loro idee a lungo. Sono capaci di ascoltare attentamente, tenaci, prudentissimi. (…) Difficile coglierli in fallo”.