di Claudia De Martino*
Oggi più che mai la questione dei foreign fighters cattura l’attenzione dell’opinione pubblica e polarizza il dibattito tra i governi europei, aprendo un altro fronte di tensione. È bastato un tweet provocatorio del Presidente Usa Donald Trump a scatenare la bufera politica in Europa, un’Unione già divisa e dalle istituzioni ancora troppo deboli per affrontare collegialmente la questione del rientro dei propri combattenti stranieri.
The United States is asking Britain, France, Germany and other European allies to take back over 800 ISIS fighters that we captured in Syria and put them on trial. The Caliphate is ready to fall. The alternative is not a good one in that we will be forced to release them……..
— Donald J. Trump (@realDonaldTrump) February 17, 2019
L’invito del Presidente americano rivolto principalmente a Inghilterra, Francia e Germania (ma anche al resto d’Europa) ad occuparsi dei loro circa 800 combattenti, attualmente rifugiati nei campi profughi siriani e turchi e potenzialmente intenzionati a fare rientro in patria, ha innescato una serie di reazioni in ordine sparso dei principali Paesi europei. Le successive allusioni del Presidente Trump – il quale ha minacciato, in caso di mancata accoglienza e messa a giudizio dei jihadisti in Europa, il rilascio indiscriminato di questi ultimi quando sarà completato il ritiro Usa dalla Siria – hanno posto con urgenza la questione all’attenzione dell’Unione europea.
Trump ha anche aggiunto, puntando a compattare l’opinione pubblica interna, che gli Usa hanno già investito troppo tempo e risorse nella lotta contro l’Isis, e che dopo la brillante vittoria sul Califfato raggiunta dalle truppe americane e dalle Forze democratiche siriane a maggioranza curda, è ora finalmente arrivato il momento che altri partner, ovvero gli europei, “facciano la loro parte”. Un discorso che richiama una delle linee guida della politica estera dell’attuale amministrazione Usa, improntata alla richiesta di una più equa condivisione dei costi all’interno della Nato.
Tuttavia, ciò che colpisce sono le consuete divisioni tra Paesi europei, i quali, dopo aver trovato una transitoria convergenza nella risoluzione antiterrorismo approvata nel 2015 (la cosiddetta “Agenda europea sulla sicurezza”), oggi optano per una risposta non coordinata e “sovranista” anche su un dossier evidentemente paneuropeo.
Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas ha replicato al Presidente Trump che in Europa la questione si presenta molto più complicata di quanto non appaia negli Usa. Questo perché molti Paesi europei sono già alle prese giudiziariamente con il rientro dei propri foreign fighters pur non avendo comunicato la notizia all’opinione pubblica per paura di reazioni ostili (il 30% dei circa 4.294 individui radicalizzati schedati nella banca dati Europol avrebbero già fatto ritorno in Europa). Tali paesi, però, riscontrano oggettivi problemi nel determinare le responsabilità individuali dei singoli combattenti durante i cinque anni di esistenza del Califfato. Soprattutto, mancano di una legislazione che permetta di appurare le responsabilità di donne giovani che, pur avendo contravvenuto alla legge recandosi in un Paese in guerra (“Criminalisation of terrorism-related travels”, direttiva CE 2017) ed essendosi macchiate del reato di apologia di terrorismo sostenendo la causa del Califfato, non si sono rese direttamente responsabili di crimini efferati.
Più decisa e convergente sulla linea americana è invece la posizione della Francia, la quale ha annunciato la propria disponibilità a riaccogliere immediatamente e processare in patria tutti i combattenti di nazionalità francese, con l’obiettivo di punirli severamente secondo quanto previsto dalle apposite leggi antiterrorismo di recente emanazione. Tuttavia la Francia, che risulta il Paese che più ha contribuito con partenze individuali a rafforzare l’esercito volontario del Califfato (1910 casi), non sembra essere in grado di processare simultaneamente i suoi circa 4000 jihadisti (comprensivi di donne, uomini e bambini). Altri Paesi, come il Belgio, si sono espressi in modo più ambiguo, preannunciando di voler rimpatriare solo quei soggetti che risultino recuperabili alla società civile a tutti gli effetti, individuati nei bambini fino ai 10 anni di età, stabilendo un criterio arbitrario di selezione tra i propri cittadini che rischia di essere impugnato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
In Gran Bretagna, il dibattito politico sui foreign fighters è polarizzato tra chi (come il ministro degli Interni Sajid Javid), sull’onda della pressione dell’opinione pubblica, sostiene che scoraggerà le pratiche di rimpatrio, e le leggi che invece impongono l’accoglienza sul territorio nazionale di tutti i cittadini britannici che non dispongano di una doppia nazionalità. L’Austria intende processare i propri ex jihadisti in patria, perché – analogamente al Regno Unito – non può rifiutare il rimpatrio dei propri connazionali, ma il governo di Sebastian Kurz si interroga su una modifica sostanziale delle leggi attualmente in vigore. Ed infine i moderati Paesi scandinavi optano per una politica di reinserimento volontario nella società che punta sulle misure di de-radicalizzazione, senza istruire un processo su crimini commessi al di fuori del proprio territorio.
Da questo quadro emerge visibilmente un’Europa ancora una volta divisa, tra Paesi attivamente coinvolti nella guerra al terrorismo, che contemplano misure drastiche di rifiuto del reintegro degli ex combattenti e di privazione della cittadinanza (Francia, Danimarca e Gran Bretagna), e Paesi ancora del tutto impreparati ad affrontare un’emergenza di questo tipo. Anche le misure di sicurezza cautelari variano molto (da 2 a 14 giorni di detenzione senza accuse a carico, e da 3 mesi a 4 anni di detenzione preprocessuale, con la Francia che presenta la legislazione d’emergenza più severa a riguardo), nonché quelle di detenzione (in carceri miste insieme a criminali comuni, nella maggior parte dei Paesi europei inclusa l’Italia, e in carceri di massima sicurezza specializzate nell’antiterrorismo, in Paesi come l’Olanda).
Nondimeno, se il problema si pone all’attenzione delle autorità giudiziarie fin dal 2012, troppo poco è stato fatto per elaborare una strategia comunitaria sui foreign fighters. Gli europeisti ante litteram potranno protestare, ma l’Unione Europea e i suoi Stati membri agiscono sempre in reazione ad un monito Usa e mai con spirito d’iniziativa. Il calendario del ritiro dell’esercito americano in Siria non è ancora chiaro, ma se le Forze democratiche siriane dovessero essere lasciate sole, la detenzione dei combattenti dell’Isis cesserebbe di essere una loro priorità e non potrebbe più essere garantita.
Se si vogliono salvare i presupposti per il buon funzionamento del Trattato di Schengen in uno spazio europeo pacificato, molto di più deve essere fatto dai governi europei per elaborare strategie e prassi comuni. I foreign fighters pongono una sfida alla sicurezza europea che dovrebbe essere affrontata come un problema comunitario per una serie di ragioni molto concrete: rappresentano una minaccia ai valori comuni europei, costituiscono un problema di ordine pubblico condiviso, hanno violato una legislazione comune all’Unione Europea, si sono macchiati di un crimine che, con pur differenti sfumature, viene identificato come un processo di radicalizzazione nella giurisprudenza di tutti gli Stati membri. Se questi ultimi non sono in grado di convergere nemmeno su una questione prioritaria di ordine pubblico come quella costituita da alcune migliaia di foreign fighters, come potranno mai accordarsi sul sistema di ripartizione per quote di centinaia di migliaia di migranti?
I governi Ue possono indispettirsi di fronte alle provocazioni di Trump, ma la verità è che la questione dei foreign fighters potrebbe contribuire a rendere evidente alla maggior parte dei loro cittadini un dato già manifesto: che il “sovranismo” non è in grado di affrontare quasi nessuna delle sfide del 21° secolo.
* ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali