Continuano le grane, per Matteo Salvini, dopo la sua “assoluzione” sulla piattaforma Rousseau. L’ultimo guaio è la richiesta di risarcimento presentata contro il ministro degli Interni, e contro l’intero governo, da parte di 41 dei 177 migranti a suo tempo trattenuti sulla Diciotti. In effetti, se la decisione presa da Salvini imponendosi sul ministro competente, il povero Toninelli, l’avesse assunta qualsiasi altro funzionario pubblico, non protetto dall’immunità parlamentare, costui sarebbe finito, è il caso di dire, in un mare di guai. Anche nel caso Diaz-G8, del resto, i funzionari responsabili del pestaggio sono sfuggiti alle loro responsabilità penali e disciplinari, ma non a quelle civili e contabili.
Giuridicamente, il caso Diciotti è più complesso. Salvini ha agito dentro o fuori le proprie competenze di ministro degli Interni, per non parlare delle competenze sui porti che toccavano al ministro dei Trasporti? E se ha agito dentro le proprie competenze, la sua era una decisione politica insindacabile, motivata da una situazione di emergenza e dall’esigenza di trattare la redistribuzione dei migranti con l’Europa, oppure una decisione giuridica illegittima, che ignorava i trattati, le leggi del mare e il fatto che i migranti, soccorsi da una nave italiana, erano già in territorio italiano? E, nel secondo caso, ricorrono gli estremi del sequestro di persona?
Non elenco questi problemi perché abbia una soluzione in tasca, anche se una mia idea ce l’ho. Lo faccio per suggerire che a domande come queste non possa rispondere un organo politico, come la Giunta per le autorizzazioni a procedere o il Parlamento. (Fra parentesi: figurarsi la piattaforma Rousseau, anche se i militanti avessero mai potuto “leggere le carte”). A domande come queste, come ai dubbi di costituzionalità che si addensano sul decreto sicurezza, dovrebbe rispondere un giudice e in ultima istanza il giudice più autorevole di tutti, la Corte costituzionale. Perché oltre all’esigenza di fare giustizia, c’è anche quella di sapere come ci si dovrà comportare in altri casi, che infallibilmente si verificheranno.
Del resto, tutta la vicenda Diciotti, sin dall’inizio, pare un caso di scuola di cortocircuito fra istituzioni politiche e comunicazione digitale. Ci sono due circuiti: quello politico, retto da norme e convenzioni costituzionali che ne assicurano un minimo di razionalità, e uno comunicativo, esposto a tutti i rischi dell’irrazionalità collettiva. Il populismo, in particolare digitale, è una specie di corto circuito fra questi due circuiti: i populisti dicono sui social cose che, come rappresentanti delle istituzioni, non dovrebbero permettersi e questo provoca conflitti difficili da riassorbire.
Nel caso della Diciotti si è avuto un doppio corto circuito, che ha coinvolto entrambi i partiti populisti che ci governo: quasi a mostrare che un populismo va pure bene, ma due sono davvero troppi. Prima Salvini blocca i naufraghi, al fine dichiarato di redistribuire i migranti e a quello molto più concreto di farsi plebiscitare sui social: operazione perfettamente riuscita, la seconda, visto che la Lega viaggia col vento in poppa verso le Europee. Poi il Movimento, incapace di gestire una situazione critica, scappa dalle sedi istituzionali competenti e si rifugia nella sua vecchia, dolce casa, la Rete, dividendosi pure lì.
Ora, specie dopo i nuovi problemi giudiziari della famiglia Renzi, qualcuno si preoccupa che la magistratura torni a intervenire nella politica italiana. A me questo pare l’ultimo dei problemi. Qui la magistratura, mi sembra, funziona come un dispositivo salvavita che interviene in caso di corto-circuito: stacca la corrente, permette di vedere dov’è il guasto e magari di ripararlo. E mi pare che un intervento chiarificatore dei giudici, qui, farebbe bene a entrambi i circuiti, quello istituzionale e quello comunicativo. Nelle istituzioni, i governanti si accorgerebbero che ci sono dei giudici anche a Catania e a Roma, e non solo a Berlino. Sui social, i loro follower comincerebbero a sospettare che i governanti non possano fare impunemente quello che vogliono. In entrambi i casi, anche per Salvini sarebbe finita la pacchia.