“La performance economica dell’Italia appare tanto sbalorditiva nel dopoguerra quanto deludente negli ultimi 25 anni”. E ora, nel contesto di un aumento dei tassi di interesse sui mercati dei capitali, il Paese “potrebbe ritrovarsi sotto una rinnovata pressione dei mercati finanziari“. In particolare “se la disputa sul bilancio” con la Commissione Europea “dovesse infiammarsi di nuovo e i premi al rischio”, cioè i rendimenti dei titoli di Stato, “non recederanno, la solvibilità del governo italiano, che è altamente indebitato, potrebbe essere messa in dubbio“. Lo rileva lo European Economic Advisory Group del CesIfo di Monaco di Baviera, un gruppo di sette economisti di sei Paesi, nel rapporto A Fragmenting Europe in a Changing World. All’Italia è dedicato un focus intitolato “Come rimanere indietro”, che analizza le cause dei “25 anni di stagnazione e di crisi” del Paese con il fallimento “nel reagire in modo costruttivo alle sfide e alle opportunità di un mondo che cambia”.
Gli economisti dell’Advisory group, presieduti quest’anno da Giuseppe Bertola dell’Università di Torino, si chiedono “dove sono finiti i miracoli” economici di cui il nostro Paese era stato capace nel dopoguerra. Nessun “miracolo” è avvenuto dagli anni ’90 in poi, aggiungono, evidenziando come di recente “la ripresa” economica “più lenta dell’Italia” rispetto al resto d’Europa “sembra essere solo una continuazione dei precedenti scarsi risultati economici interni”. Quanto alle politiche del governo gialloverde, secondo gli economisti “molte delle riforme fatte invertono la marcia rispetto a riforme del passato” e “ciò riporta nell’economia italiana caratteristiche che hanno avuto un ruolo nel prevenire reazioni adatte al cambiamento strutturale” e che hanno avuto come risultato una “stagnazione prolungata”. Come è successo “fin troppo spesso nel corso degli ultimi 25 anni”, le azioni politiche in Italia “sembrano essere ispirate nostalgicamente” al desiderio di tornare ad un passato che “sembra positivo, nella memoria collettiva”. Ma “la memoria è selettiva” e troppo spesso si dimenticano i costi: chi ha nostalgia della lira scorda i danni che l’elevata inflazione faceva al potere d’acquisto, “anche dei pensionati”. Resta in Italia la tentazione di “rimuovere vincoli impopolari aumentando il deficit”. Gli italiani, avvertono infine, possono “trarre conclusioni osservando le crisi in Argentina, Turchia e Venezuela, tutti Paesi che non hanno i vincoli dell’Eurozona e dell’Ue, ma che non vanno poi così bene”.
Il rischio Italia è elencato tra i principali rischi per l’outlook macroeconomico, al fianco della Brexit. “Poiché i titoli di Stato italiani sono detenuti non solo dalle banche italiane, ma anche da banche al di fuori dell’Italia, e le banche italiane sono interconnesse con altre istituzioni finanziarie europee – sottolineano gli economisti – un ulteriore calo dei prezzi dei titoli italiani potrebbe interessare anche le istituzioni finanziarie degli altri Stati membri dell’Eurozona”, provocando un rischio contagio. Secondo gli economisti, “l’aumento del rischio di contagio innescato dal governo italiano è immediatamente evidente” guardando in particolare all’andamento del rendimento dei titoli di Stato di Grecia, Portogallo e Spagna. Il calo dei rendimenti dei tre Paesi, protagonisti di una ripresa economica, si è infatti “interrotto lo scorso anno”, quando sono tornati ad aumentare sulla scia del rendimento dei titoli di Stato italiani, che hanno subito un marcato rialzo.
Nel focus dedicato all’Italia gli economisti dell’Eeag ricordano gli anni del boom economico postbellico, quando Roma “ha sfruttato con efficacia le opportunità: adozione della tecnologia americana, urbanizzazione, migrazione interna hanno aumentato di molto la produttività del Paese”. I dati segnano l’inizio del declino “con sufficiente precisione” al 1992, quando finì “l’egemonia della Democrazia Cristiana“, spazzata via dalle inchieste di Mani Pulite. Nel 1992 inizia ad accelerare l’integrazione economica europea, iniziano a funzionare il World Wide Web e le prime reti Gsm. Sviluppi a cui l’Italia “ha reagito nel modo meno appropriato”. Anche se aver rinunciato alle “frequenti” svalutazioni competitive, che pure hanno avuto un “costo in termini di instabilità per i produttori italiani e per quelli stranieri”, potrebbe aver “avuto un ruolo nei susseguenti decenni di stagnazione”, le radici della stagnazione pluridecennali dell’economia italiana sono da cercare altrove.
In particolare, osservano gli economisti dell’Eeag, “quando i mercati si integrano, coloro che forniscono fattori di produzione che diventano meno scarsi patiscono una riduzione delle entrate”. In altri termini, “ci sono forti evidenze che l’integrazione commerciale con le economie extra europee hanno avuto implicazioni più favorevoli per le esportazioni e in termini di commercio per le economie dell’Europa ‘core’ che per le economie periferiche dell’Ue”. L’Italia “complessivamente considerata” potrebbe essere stata “relativamente danneggiata” da questo meccanismo. Se, per esempio, la globalizzazione permette alla Germania di vendere “più macchinari alla Cina” e di comprare “vestiario dal Vietnam” invece che dall’Italia, allora beneficia il tedesco medio più dell’europeo medio, “e molto di più dell’italiano medio”.
E infatti tra il 1995 e il 2015 la produzione tessile “è calata” in Italia, Francia e Germania, mentre quella dei macchinari “non è diminuita”. Il fatto è che il tessile “era e resta” molto “più importante” che in Francia e in Germania, mentre il settore dei macchinari, sebbene più importante che in Francia, “era, e rimane, molto meno importante in Italia che in Germania”. Quindi, gli sviluppi dei singoli settori “possono in parte spiegare” le ragioni del relativo declino italiano. Il problema, però, è che il Paese “non era ben attrezzato ad affrontare cambiamenti di natura strutturale”, quale è la globalizzazione. Non tutta l’Italia è rimasta indietro: anzi, il Nordest “tra il 1995 e il 2007 ha sovraperformato la Germania”, mentre però “non solo il Sud, ma anche il Nord Ovest, sono rimasti indietro”. Il problema è che “in Italia i mercati, le politiche e le istituzioni non erano all’altezza di affrontare il cambiamento”. Anche nel Nord Ovest, “molte fabbriche tradizionali hanno continuato a funzionare ben oltre il momento in cui i loro lavoratori avrebbero dovuto trovare un altro impiego”. L’inefficiente allocazione dei fattori produttivi “è chiaramente collegata” agli indicatori “scadenti” in materia di “assetti proprietari, controllo, governance delle imprese, composizione della forza lavoro, internazionalizzazione, innovazione e clientelismo, sia prima che dopo l’adozione dell’euro”. Tutti difetti che sono presenti da molto tempo nell’economia italiana, ma che sono divenuti “più dannosi alla luce degli ultimi sviluppi”. Per esempio, la forza lavoro italiana “è sempre stata molto meno istruita di quelle di altri Paesi industrializzati”.
Un difetto che non ha intralciato la produttività “finché il Paese produceva manufatti tradizionali”, ma che è diventata “un problema” quando l’integrazione economica e gli sviluppi tecnologici hanno reso necessaria una transizione ad una produzione “ad elevata tecnologia”. Tra l’altro, osservano gli economisti, in Italia c’è un “clima politico meno costruttivo“, che può essere ascritto a “fattori culturali come l’influenza della televisione privata e a un sistema educativo piuttosto disfunzionale”. E il Paese “è stata lento persino nel riconoscere la necessità di cambiare”. L’Italia, in verità, “si è riformata”, ma “non velocemente come hanno fatto altri Paesi” e “certamente non ad un ritmo che consenta di nuotare controcorrente, in mezzo a choc negativi, e di tenere il passo con i suoi concorrenti”. Le riforme “sparse ed esitanti” e “i frequenti cambiamenti di governo” segnalano che non c’è “un consenso stabile su quali riforme dovrebbero essere fatte” e soprattutto che “lo status quo gode di un considerevole sostegno politico“. Il fatto è che “molti italiani si ricordano i tempi migliori” e si chiedono se “semplicemente attendere” che tornino i tempi andati non sia una buona strategia: dopotutto, “le cose andavano bene solo poco tempo fa” e la crescita del passato “mantiene gli standard di vita elevati“. L’atteggiamento di chi dice che cambiare non serve “è comprensibile per un Paese ricco, dove gli standard di vita sono elevati”, osservano gli economisti dell’Eeag. Però “la mancanza di crescita è un problema, per un Paese integrato con un mondo che cambia”.